di Fiona Diwan
C’è Teodoro, il buon cane sionista, un bassotto chiamato così in affettuoso omaggio a Herzl. C’è il busto di Cagliostro, guaritore e negromante, che occhieggia minaccioso dalla scrivania del padre medico. C’è tutta la generazione Anni Sessanta, che ruggisce e sussulta con i motori di una Guzzi o di uno Zundapp. Cani, motociclette, cavalli, amori, famiglia, amici…: questo e molto altro troviamo in Svita (editore Nuages), l’intenso memoir di Luciano Cesare Bassani, 60 anni, celebre medico fisiatra e milanese. Ma che significa Svita? «È un gioco di parole: è l’idea della vita che si “svita”, che si dispiega e corre lungo le praterie dell’esistenza; la vita di ciascuno che, dopo inciampi e buie capriole, dopo duri momenti di “avvitamento” riprende il suo fluire largo e generoso. Il titolo mi viene da mia zia Eugenia, una grande mente scientifica, una donna unica e straordinaria (prese parte anche al progetto Manhattan a Los Alamos, durante la Seconda Guerra Mondiale): lei mi ripeteva sempre che “la nevrosi è statica e la vita è dinamica”, che la vita si “svita”, non si può fermare, va avanti sempre e che siamo noi a doverla cavalcare e mai accettare di farci cavalcare da lei». Vitale e malinconico, celebre per il suo senso dell’umorismo, Luciano Bassani è personaggio molto conosciuto a Milano: ex vice-Presidente del Keren Hayesod, ex Presidente dell’AME, impegnato oggi in un progetto di medicina sul territorio tra sanità italiana e israeliana, Bassani ci racconta, con questo memoir, la sua gioventù ebraica e la sua maturità di uomo e di medico, le sue riflessioni familiari e le sue conquiste interiori.
«Con Svita ho voluto anche narrare l’avventura di una famiglia emblematica di ebrei italiani: piemontesi da una parte (di Trino Vercellese), i Luzzati Momigliano, la famiglia di mia madre Adriana (ne faceva parte anche il cugino geniale, il disegnatore Lele Luzzatti); e, dal lato paterno, i Bassani-Limentani Finzi, famiglia che vantava premi Nobel come Emilio Segrè, scrittori come Giorgio Bassani e altre figure importanti e carismatiche come Eugenio Curiel.
Tradizione laica, partigiana, antifascista… insomma un esempio aureo di italianità ebraica. Fu il cotè Bassani Limentani Finzi a governare – e a tratti opprimere -, la vita della mia famiglia e non sempre con esito gioioso, specie per mia madre Adriana, che ne rimase schiacciata. Ma ho voluto restituire anche gli eventi che hanno segnato l’avventura umana dei miei genitori: la fuga da Ferrara, il trauma dell’espulsione dalle scuole elementari – di colpo, nessun bambino o maestra che parla più con mia madre bambina -, le Leggi razziali, lo choc terribile di una vita che si disintegra in una manciata di giorni. Una tragedia i cui traumi sono stati sminuiti rispetto a chi aveva vissuto la Shoah, ma ugualmente portatori di grande sofferenza». Luciano Bassani rievoca anche l’epopea mitica di Bruno, suo padre, che come Enea con il vecchio Anchise, si carica letteralmente in spalla l’anziano genitore, Gilmo, e insieme alle sorelle e alla madre Lavinia Limentani, fugge da Ferrara correndo su e giù per le Alpi. Riesce così a eludere le pattuglie naziste mettendo in atto una strategia geniale. Invece di scappare a ovest, si dirige a est, nelle fauci del drago, correndo incontro alle truppe tedesche. La fortuna, si sa, arride agli audaci. Animato da un inguaribile ottimismo, fiducioso di farla franca, papà Bruno arriverà nell’agosto del 1943 a Fiera di Primiero, in Trentino, dove non ci sono mai stati ebrei e dove nessuno è in grado di sapere che quel cognome, Bassani, è ebraico: così, il padre di Luciano lavorerà nel tubercolosario, per le suore locali che ne sfruttano le competenze mediche. Bruno ripiegherà quindi a Stresa: e qui, con una chutzpà inimmaginabile, busserà al comando delle SS locali e, battendo il pugno sul tavolo, pretenderà in qualità di italiano purosangue, una tessera annonaria e il diritto di lavorare e esercitare la professione medica.
Tutte gesta, spiega Bassani, che sono entrate nel mito familiare. «Mio padre fu indubbiamente un personaggio leggendario, originale, audace e… anche molto ingombrante». Luciano, che ha fatto il medico ed è diventato fisiatra e specialista di problemi posturali, confessa di aver avuto il suo bel da fare per “smaltire” i problemi edipici che prima o poi presentano tutti i figli di padri importanti. Costruire la propria strada, uscire dal cono d’ombra disegnato dalla fama paterna è stata una lunga strada. Bassani lo racconta con ironia e humour surreali. Il racconto che si snoda lungo ottant’anni di vita italiana e familiare è a tratti esilarante anche per il tono auto-canzonatorio. Del resto, si sa, le generazioni si susseguono come isole nella corrente, ancorate saldamente al fondo del mare ma incessantemente battute dai venti della Storia e lambite dai flutti del cambiamento. «Come primogenito, sono cresciuto con l’idea di dover riscattare la gioventù perduta dei miei genitori, la loro vita scippata dalla guerra. Così, sulla mia schiena, sono finite tutte le aspettative, i compulsivi doveri, il non dover mai perder tempo. Mio padre era “teutonico”: sveglia militare, scroscio di doccia gelida all’alba, ginnastica mattutina… Mi intimava sempre di non deluderlo, di essere all’altezza. Ecco: io appartengo alla prima generazione del dopoguerra, quella del riscatto, quella cresciuta nella Milano delle nebbie, con la prima tv in bianco e nero, con Carosello, con l’Inter di Helenio Herrera e quella mitica squadra che nessuno può dimenticare, Sarti, Burnich, Facchetti, Mazzola…». Padre e figlio, Bruno e Luciano: un destino trasversale, eclettico ed esuberante, certo anticonformista, animato da amore per la sperimentazione e spirito d’avventura. «Non fare mai le cose che fanno gli altri: questo mi ha insegnato mio padre. Alla sua morte, ero ancora un “apprendista stregone” e così mi sono scelto altri grandi maestri: James Cyriax e Renè Bourdiol, e poi David Alimi, Jeff Patterson, Bernard Bricot…».
Oggi, a sessant’anni, Luciano Bassani è uno specialista stimato e conosciuto per la sua capacità di sperimentare tecniche che poi si sono rivelate felici e curative. «È la “mia medicina”, come la chiamo, dopo anni di viaggi e ricerca». Le considerazioni etiche sul mestiere di medico e l’identità ebraica, la FGEI e i giovani ebrei, lo studio dell’ebraismo e l’amore per Israele, l’attività nel Keren Hayesod (1983-2012) e poi la passione per sci e cavalli, il matrimonio, il divorzio e la rinascita sentimentale e affettiva. Bassani ci narra tutto, conosce l’arte della battuta, sa sdrammatizzare gli inciampi del destino e col tocco leggero di un umorista, ci racconta la sua saga privata. Facendoci quasi sempre ridere di gusto.