Un maestro del Sionismo religioso: Joseph Dov Beer Soloveitchik. Il Kol dodì dofek

Libri

di Ugo Volli

Esce in edizione italiana Kol dodì dofek – Ascolta, il mio amato chiama, Belforte editore, tradotto da Vittorio Bendaud, con una illuminante prefazione postuma di Rav Laras

L’atteggiamento del mondo religioso ebraico rispetto allo Stato di Israele è in genere capito molto male dai media e ancora peggio dal pubblico. Anche lasciando da parte la freddezza nei confronti del sionismo da parte della grande maggioranza degli esponenti riformati, soprattutto americani, che in certi momenti storici è diventata aperta ostilità, e limitandoci a considerare gli ambienti ortodossi, la mappa è molto complessa. Vi è una chiara lontananza da parte di molti gruppi charedim, che in certi casi (Naturei Karta, chassidim di Satmar) si è espressa come violento dissenso e dichiarata avversione. Non è una tendenza unanime però: vi sono charedim disposti a vivere in Israele senza amore, ma senza ostilità aperta, a patto di essere lasciati a se stessi, che si oppongono però al servizio militare, che altri invece fanno. Vi sono i cosiddetti modern orthodox, fra cui molti rabbini europei, che appoggiano sinceramente lo Stato ebraico. E vi sono i cosiddetti sionisti religiosi che sono il nerbo dell’ala politica più impegnata a sostenere lo Stato di Israele, anche negli insediamenti in Giudea e Samaria.

Lasciando da parte le dinamiche politiche israeliane, è interessante concentrarsi sul pensiero che motiva queste posizioni. Il sionismo religioso ha avuto nel Novecento due principali maestri: uno è rav Abraham Itzhak Kook (1865-1935), primo grande rabbino askenazita di Israele, pensatore profondo e spesso sconvolgente, le cui opere però non sono disponibili in italiano. Il secondo è Joseph Dov Beer Soloveitchik (1903-1983), il più importante rabbino della storia ebraica negli Stati Uniti, tanto da esservi citato spesso solo come “il rav” per antonomasia. Di suo in italiano Giuntina ha pubblicato parecchi anni fa Riflessioni sull’ebraismo, un anno fa è uscito da Belforte La solitudine dell’uomo di fede, di cui ho già parlato in questa rubrica, e ora lo stesso editore pubblica Kol dodì dofek – Ascolta, il mio amato chiama, tradotto da Vittorio Bendaud, con una illuminante prefazione postuma di Rav Laras. Il libro si presenta classicamente come una meditazione e un commento su testi biblici, in particolare il Cantico dei cantici, Giobbe, la Torà; ma è denso di pensiero filosofico e politico. La nascita dello Stato di Israele è vista dal rav come un fatto provvidenziale, come una “chiamata” dell’Amato del Cantico (che nell’interpretazione tradizionale è il Signore) all’Amante (Israele), la quale rischia però come nel testo di non rispondere perché non capisce l’importanza del momento.

Oggetto di questa chiamata è la realizzazione del compito che il popolo ebraico ha in questo momento, cioè quello di ritrovarsi, di riconoscere il proprio destino comune come popolo, quello che Soloveitchik considera oggetto del “Patto dell’Egitto”, per elevarsi al “Patto del Sinai”, impegnarsi nella propria missione, diventando così nazione.
La nascita dello Stato di Israele è compresa dal rav come il frutto miracoloso del “bussare e del battere dell’Amato alla porta dell’Amante” che soffre a causa della Shoah; e non si tratta di un evento isolato: “mi sembra che si possano contare almeno sei battiti”, dalla politica internazionale al campo di battaglia all’arena teologica all’immigrazione. Insomma in questo densissimo libretto il momento storico della rinascita dello Stato ebraico è visto, come diciamo nelle preghiere, “germoglio della redenzione”. Secondo Soloveitchik il senso dello Stato non è solo politico, ma teologico, una chiamata che interpella l’essenza stessa di Israele. Ogni silenzio di fronte ad essa, ogni freddezza, ogni egoismo – ed è il rav stesso a denunciare che essi erano ben presenti ai suoi tempi nella comunità ebraica americana dove li vediamo ancora oggi – è un tradimento di questa missione.
Kol dodì dofek è un libro indispensabile difficile ed esigente. Non perché sia difficile da capire, anzi è chiarissimo e scritto in un linguaggio limpido, pieno di immagini che vanno dritte al cuore e di pensieri illuminanti. Ma perché domanda a chi lo legge, come nel verso della Torà su Abramo che è citato con forza: “dove sei?”: dove sei tu, lettore, come ti collochi rispetto al compito storico del popolo ebraico. Comprendi di essere richiamato al tuo destino collettivo perché solo aderendovi è possibile avvicinarsi alla missione di Israele? È una domanda che ancora oggi è necessario ripetere, almeno per tutti coloro che credono a un contenuto di verità nell’esperienza storica del popolo ebraico.