Un ragazzino a Milano che amava l’Hatikva, i Beatles e i Rolling Stones

Libri

di Fiona Diwan

Memoir: vita e avventure del giovane Dario Diaz. Presentazione del libro Ultimo sedile in fondo, Milano, 21 maggio, ore 18.30, Teatro Franco Parenti (clicca QUI)

Parla, ricordo, scriveva Vladimir Nabokov interrogando lampi di passato mentre affioravano dal flusso intermittente della memoria. Filamenti di ricordi che accendono qualcosa di sepolto che esige di riaffiorare. È la rapidità dei mutamenti, è la vita che si sfilaccia, ciò che sta spingendo molti a cimentarsi con il “ricordo in forma di traccia”, ossia con il sottogenere che oggi viene chiamato life-writing. Un impulso a fermare l’unicità di quanto ci è accaduto affinché non vada perduto nei cunicoli dell’oblio, un bisogno di testimoniare: fenomeno sempre più diffuso che prende forma in narrazioni non sempre filate e consequenziali quanto piuttosto in “quadri di un’esposizione”, istantanee di momenti significativi lungo la pellicola di una esistenza

 

È il caso il Dario Diaz, ex pubblicitario, copywriter e direttore creativo nelle grandi agenzie internazionali, ex docente di comunicazione all’Università di Milano, che con Ultimo sedile in fondo (1000 e una notte editore), manda alle stampe l’epopea della sua infanzia da zero a 25 anni narrandoci un Io fanciullesco e giovanile intriso di freschezza e benevolenza (la piccola casa editrice 1000 e una notte fondata dallo scrittore Aldo Tanchis ha scelto di inaugurare con questo libro una collana dedicata ai memoir).

Buona parte della vita, di ogni vita, si trova nei libri e ben lo sa Dario Diaz, lettore vorace e onnivoro, autore di questo memoir delicato e soffuso di ironia, oggi alle prese con il racconto del suo passato ebraico italiano, pagine autobiografiche dal 1942 al 1968, “il tempo dell’iniziazione che preannuncia e prepara ciò che sarà”: da Torino a Porlezza, da Milano a Israele, il giovane Oscar alias Dario è scolaro e studente alla scuola di via Eupili di Milano sorta dopo le Leggi razziali del 1938; e poi eccolo ventenne mentre arriva in Israele, in kibbutz, all’indomani della Guerra dei sei giorni oppure mentre è costretto a fingersi cattolico per non alimentare l’antisemitismo dei suoi compagni di giochi (che però lo scoprono subito e lo bullizzano).

 

E poi gli amori, le donne, gli incontri, le amicizie (in particolare quella con lo scrittore Miro Silvera, suo compagno di banco in via Eupili e mai più abbandonato), il rapporto con il padre idealizzato che portava al Tempio i tre figli e che divenne partigiano nelle valli intorno al lago di Lugano; la delazione del vicino di casa, un fascista, in via Orti a Milano, che costringe la famiglia Diaz alla fuga precipitosa in campagna; il rapporto con le due sorelle adorate, la loro vita di ragazzini rimasti orfani troppo presto per poter affrontare la vita da soli.

Tra il racconto famigliare e le citazioni di libri, musica e film, sfila il racconto di due generazioni, quella della guerra e del Dopoguerra. Un racconto che non segue una cronologia precisa, ma il va e vieni dei ricordi, montato come un film, fotogrammi di vita il cui sfondo è la Milano nebbiosa e leggendaria degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, un’età perfetta e felice prima dell’irrompere del dramma che si porterà via la sua famiglia. Un memoir pieno di tenerezza quello di Dario Diaz: per quello che siamo stati e che avremmo voluto diventare, per ciò che potevano intuire e non abbiamo capito in tempo, per le felicità raccolte e per quelle lasciate andare, per gli errori, le occasioni perdute, le promesse, le illusioni intorno a cui ogni vita è costruita. Perché il tempo, in definitiva, come scriveva Abraham J. Heschel, è l’eternità in incognito.

Il bisogno di raccontarsi adesso, a 80 anni: perché?
Perché il tempo stringe e se vuoi che qualcosa resti devi sbrigarti! Così un anno fa ho iniziato a scrivere e più andavo avanti e più mi appassionavo all’esercizio della scrittura. Quando ero copywriter scrivevo per mestiere ma il linguaggio pubblicitario è una specie di prigione, non riuscivo a cambiare binario e passare a quello della scrittura su se stessi e sulle proprie emozioni.

Dario, confrontarsi con il passato non è troppo doloroso a volte? Tornare laggiù dove fa più male?
Sì ma è stato un modo per rivedere le mie relazioni primarie, quelle dell’imprinting. Ho rivalutato la figura di mia madre e ho rivisto quella di mio padre, considerato una figura eroica ma che oggi penso sia stato troppo duro con me, una durezza che ha contribuito a rendermi un ribelle. Ho anche voluto onorare la figura di Itala, la zia che ci ha cresciuti dopo la morte dei miei genitori: è stata generosa e immensa, senza di lei non so che cosa sarebbe stato di noi, tre fratellini. Avrei dovuto starle più vicino, darle di più. Ho rivisto i miei errori gravi e non me lo perdono. Ormai non c’è più nulla da fare, non si può tornare indietro sul male fatto: il passato ha questo enorme svantaggio, non si può cambiare.

Memoir e modelli letterari: qual è stato il tuo?
Indubbiamente la svolta è stata leggere La storia da dentro dello scrittore inglese Martin Amis: mi ha regalato la libertà di scrivere, di uscire dai binari codificati, mi ha tolto la paura di rischiare e mi ha dato il coraggio di continuare.

 

Dario Diaz,
Ultimo sedile in fondo,
1000 e una Notte editore, pp 135, 15,00 euro