di Ilaria Ester Ramazzotti
Una storia come tante, quella dei Ventura. Eppure speciale: l’amore, la felicità coniugale, il calore domestico, la vita che sorride, leggera. E poi lo strappo improvviso: le Leggi razziali nel 1938. Perché una famiglia non è una semplice somma di vite ma un microcosmo magico, un paradiso perduto. Almeno per quei quattro ragazzini rimasti da soli, vagando sulle strade d’Italia
“Mettiamola così: questa non sarebbe una storia da raccontare, senza la Storia con la maiuscola che prima fa capolino e poi spadroneggia. Senza di essa, anzi, questa forse non sarebbe nemmeno una storia. Sarebbe solo la vita normale di una famiglia normale: la Vita come dovrebbe essere”. Così Paolo Ciampi, scrittore e giornalista fiorentino, presenta le vicende di Anna Terracina, Luigi Ventura e dei loro figli, riportate nel suo libro Una famiglia, edito quest’anno da Giuntina. Eventi personali che si intrecciano a doppio filo con la Storia europea e della Shoah. Una storia vera che all’inizio è quella di una normale famiglia ebraica borghese, chiamata ad affrontare durissime circostanze fra il 1938 e il 1945.
“Ma -chiede a Ciampi il figlio di sette anni-, che cos’è una famiglia normale?”. Con questo incipit inizia il lavoro dell’autore, basato su una ricerca svolta scartabellando fra appunti, fotografie ingiallite e notizie sui Ventura. Immagini e scritture di vite amorevolmente richiamate al presente: “Sono belli -scrive Ciampi di Anna e Luigi ripresi in foto il giorno del loro matrimonio, avvenuto a Roma nel 1927-; di quella bellezza che emerge dalla pulizia e dalle speranze di un’età ancora acerba”. E poi ci sono le foto di Miriam e Saul, i loro primi bambini, ritratti “prima che tutto cominci. Quando essere ebrei in Italia non è un problema”. Quando “sentono che la famiglia è assai di più di una somma di vite, sentono che questi legami dureranno, che non potranno essere spezzati”. Come se da tutto si fosse protetti. Come se niente di terribile potesse davvero capitare.
Pagina dopo pagina, il lettore fa la conoscenza di questa famiglia: ecco Luigi, di origine pisana e affermato chimico, che si sposta per realizzare nuove prospettive professionali: prima a Milano, poi a Venezia, dove nasce il terzo figlio, Daniele, e infine di nuovo a Roma, nel 1938. E Anna, alle prese con una famiglia sempre più grande e i numerosi traslochi da gestire, oltre alla scuola, le vacanze, le bambinaie. E infine i nonni, le nonne, gli zii. Un mosaico vivace dispiegato in diverse comunità italiane che verrà da lì a poco inesorabilmente frantumato. Perché nel 1938 i giornali pubblicano “qualcosa che non è possibile ignorare. Quelle formiche d’inchiostro in fila una dietro l’altra, organizzate in righe e poi in colonne, sono indici puntati, sono bandi declamati sulla pubblica piazza al rullar dei tamburi, sono bisturi che affondano nella carne viva”. Perché in Italia hanno appena pubblicato il Manifesto della razza. E gli ebrei italiani hanno scoperto di essere un po’ più ebrei e assai meno italiani.
Il tuffo nel buio
Inizia il periodo buio dei Ventura, colpiti da disoccupazione, clandestinità, paura e solitudine. E Luigi scappa prima in Svizzera e poi in Francia, alla ricerca di lavoro, mentre Anna lo attende, nascosta, a Viareggio. È qui che mette al mondo il quarto figlio. Un bambino che “è nato il primo ottobre 1939, a un mese di distanza dai primi spari della guerra di Hitler. È nato con Luigi lontano ed è un atto di coraggio, questo bambino. Il dispiegarsi di una speranza. Anche lui porta un nome biblico. Un nome che sa di radici, sa di terra, ma che è anche una preghiera. Emanuele, lo hanno chiamato. Un nome che sale in alto, con la sua invocazione: che Dio sia con noi”.
Colpiti al cuore
E poi inizia un nuovo capitolo; ancora altre città. Luigi, all’occupazione tedesca della Francia, torna in Toscana in bicicletta, dopo un viaggio rocambolesco. Ma torna, salvo, e porta tutti a Livorno, poi a Roma, infine a Mariano Comense, dove trova finalmente un’occupazione. Anche la madre di Anna, malata, è con loro. Ma nemmeno Mariano è un posto sicuro, e si decide di scappare. Una disattenzione, una dimenticanza: Anna ritorna nell’appartamento che avevano abitato, solo pochi minuti, per prendere delle medicine. Scoperta e arrestata, inizia il suo tragico personale cammino.
E la famiglia, colpita al cuore, torna a nascondersi in Toscana. Luigi si arrangerà a commerciare medicine fra Milano e l’ospedale Santa Chiara di Pisa, senza smettere mai di cercare la moglie, che riesce a mandare sue notizie. “La prima lettera della mamma è datata 27 dicembre 1943 e giunge da un posto di cui non hanno mai sentito parlare. Un nome che sa di campagna: Fossoli. Un pugno di case e le distese della pianura padana attorno, a sette chilometri a nord di Carpi: di qui passa la linea ferroviaria che da Bologna e Modena va verso Mantova e poi prosegue in direzione del Brennero”.
Lì Anna “accarezza ancora la speranza di ritornare assieme a tutti i suoi cari. Passerà tutto questo? Certo che passerà. La guerra non potrà durare in eterno”. Ma non finirà, la guerra di Anna. Quella madre prigioniera morirà appena arrivata all’altro capo di quei binari, in un luogo dal nome per lei altrettanto sconosciuto: Auschwitz. Quella madre che Miriam non smetterà di aspettare per lunghi anni. Tenace e ostinata, contro ogni ragionevole probabilità. Con una forza inaspettata che, nel frattempo, le permette fra mille peripezie di accudire i fratelli persino dopo la morte di Luigi, deceduto per le ferite riportate durante un bombardamento.
Un altro capitolo. “Ora sono rimasti solo questi quattro ragazzi. Quattro ragazzi affamati, senza una casa. Quattro ragazzi braccati dagli aguzzini di Hitler. Quattro prede: quanto resta di quella che un tempo era una normale famiglia”.
Poi, nel 1944, “si leva anche il giorno atteso da anni. È il 2 settembre, e li vedi e quasi non ci credi. Eppure ecco: sono le prime pattuglie degli americani che avanzano per le strade di Pisa. No, non puoi crederci, perché alla fine il tempo si era come immobilizzato, era diventato gomma che si appiccica”. Ma arriva la Liberazione: la guerra finisce ed è un nuovo inizio. I ragazzi, dopo un trasferimento a Firenze, con l’aiuto della Brigata ebraica salpano con la prima nave per Eretz Israel. Ma non il piccolo Emanuele: il suo fisico indebolito non supera un attacco di difterite. Proprio lui, il bambino della speranza.
Quella dei Ventura non è tuttavia una storia di morte, ma di rinascita, di crescita, di storie che sbocciano da altre storie. Come quelle dei numerosi nipoti e bisnipoti che nasceranno dai figli di Anna e Luigi, tutti sposati, in un nuovo paese.
Nasceranno da loro che la guerra l’hanno vinta pure grazie al ricordo vivo dei genitori. “Perché lo sterminio nazista è anche cancellare, non solo uccidere. È voler risucchiare tutto, anche le tracce più esili di un’esistenza. Anche l’eventualità di un ricordo: come se prima della morte non ci fosse stata vita”.
Dice Elie Wiesel che è grazie alla memoria che l’uomo è capace di tornare alle fonti della propria nostalgia. “Sono sicuro che queste parole potrebbero essere incise nelle vite di Miriam, di Saul, di Daniele.
E anche di questo sono sicuro -conclude Paolo Ciampi-, sono persone come loro che mi aiuteranno a rispondere meglio al mio bambino, quando un giorno mi ripeterà la domanda: babbo, che cos’è una famiglia normale?”.