di Ugo Volli
La lingua yiddish nasce probabilmente in Renania nel Medioevo, quando fiorirono le comunità dei Chassidei Askenaz, devastate poi dalle Crociate; sotto l’impulso delle persecuzioni l’ebraismo askenazita sposta poi il suo baricentro all’Est, in Polonia e in Russia, pur conservando una presenza nell’Europa centrale, per esempio a Praga e Francoforte. La civiltà che ne nasce ha momenti di grande altezza culturale (si pensi al Maharal di Praga, al Gaon di Vilna, ai maestri del chassidismo) su un fondo di miseria e di persecuzioni, ma anche talvolta di prosperità e di influenza: si pensi alla storia curiosa di Saul Wahl Katzenellenbogen, guardasigilli e “re per un giorno” del regno di Polonia.
Fino alla metà dell’Ottocento, la cultura yiddish è essenzialmente religiosa, impermeabile al contesto cristiano; poi con l’illuminismo ebraico e la modernità tecnica ed economica arrivano i movimenti politici, in particolare socialismo e sionismo, la letteratura, la pittura, il giornalismo e anche il teatro. È una fioritura effimera, che dura fino alla repressione sovietica che distrugge culturalmente l’ebraismo orientale prima che i nazisti lo sterminino. Sono tre o quattro generazioni veramente straordinarie.
Il teatro yiddish è particolarmente interessante in questa vicenda, perché insieme rispecchia e contraddice la cultura da cui nasce. La esprime mettendone in scena le figure tipiche, i conflitti sociali, la vita religiosa, ma anche le superstizioni (si pensi al “Dybbuk”, la storia di un morto che ritorna). La tradisce perché ne espone soprattutto la dissoluzione e la marginalità. Antonio Attisani, storico del teatro fra i più importanti delle nostre università, pur non avendo origini ebraiche, si è innamorato del teatro yiddish e gli dedica una grande storia, che quando sarà finita conterà sette volumi: una ricostruzione che non ha pari al mondo. Per ora vale la pena di segnalare il primo volume introduttivo, scritto con Veronica Belling, Merida Rizzuti e Luca Valenza: Tutto era musica – Indice sommario per un atlante della scena yiddish, pubblicato da Academia University Press (ma si può scaricare anche liberamente sul sito della casa editrice, www.aAccademia.it/yiddish1).
Attisani è uno di quegli storici del teatro che bada alle vicende concrete delle scene, degli attori e del loro ambiente più che alla critica e alla filologia della letteratura drammatica. Questa storia rispetta tale impostazione, anche perché secondo Attisani non vi sono nella drammaturgia yiddish capolavori drammaturgici assoluti, mentre vi è una vita teatrale molto ricca e movimentata. Il teatro yiddish è soprattutto popolare, somiglia per certi versi a quello napoletano. Nasce dai cantastorie e dai cantanti da osteria; prima di diventare istituzione è realizzato da compagnie che battono instancabilmente i piccoli centri di popolazione ebraica e continuamente si imitano, si scambiano attori e copioni, si dividono e si riuniscono. È teatro musicale, melodramma dalle tinte forti e dalla recitazione assai gestuale. Proprio per questo sua carattere popolare non piaceva alla borghesia ebraica assimilata, ma affascinò Kafka, che vi vedeva le radici di un ebraismo popolare, e Joseph Roth, che ne parla con entusiasmo. Ma quel teatro influenzò profondamente il cinema, ispirò figure come Charlot e musical come Il violinista sul tetto. Insomma, è un’esperienza da non mitizzare ma neppure da dimenticare, una parte della tradizione (e della dissoluzione) dell’ebraismo dell’Europa orientale che ancora lascia tracce.