Intervista a Dario Fertilio
Auschwitz non è stato un vaccino sufficiente. Il pericolo dell’oblio
Il virus totalitario è il nuovo libro di Dario Fertilio, giornalista e scrittore, che ai temi degli anni più bui dell’Europa ha dedicato numerosi saggi, quali La morte rossa, L’anima del Führer, Musica per lupi. Gli abbiamo posto alcune domande.
In questi anni in Europa assistiamo al risorgere di movimenti nazionalisti, xenofobi, razzisti che stanno conquistando voti e potere. Penso all’Ungheria, ma anche nelle democrazie occidentali più solide i movimenti populisti sono in crescita. Il virus totalitario si annida anche qui?
Bisogna distinguere fra un totalitarismo compiuto e gli strumenti culturali e politici di cui si serve. Le culture politiche note come populismo, xenofobia, razzismo, sono ambigue e appartengono al “materiale da costruzione totalitario”. Riguardo al populismo, ad esempio, basti pensare a quello russo ottocentesco, al maccartismo americano, a quello mussoliniano, o grillino, leghista o trumpista di oggi, per comprendere che non hanno niente o quasi in comune; del resto anche in Berlusconi e Renzi ci sono evidenti tracce di populismo, per non parlare di esponenti politici in Austria o Ungheria. Io direi che queste siano piuttosto “culture politiche”, utilizzate strumentalmente da diverse partiti e leader per consolidare le loro basi elettorali. Il virus totalitario, invece, per riprodursi, deve essere già strutturato, anche se può utilizzare determinati territori culturali, ad esso favorevoli. Nel libro distinguo fra “totalitarismo” e “pretotalitarismo”, indicando nel primo una ideologia in grado di egemonizzare un territorio ed espandersi indefinitamente: nel secondo un germe potenzialmente pericoloso, ma ancora minoritario. Tuttavia esiste nell’Europa Centro-Orientale una ideologia nazi-comunista, che cioè utilizza culture neonaziste (fra cui razzismo, xenofobia, antisemitismo, antiislamismo) mescolandole ad altre comuniste (statalismo, imperialismo, collettivismo, classismo) generando una miscela aggressiva e pericolosa (quella di Milosevic in Serbia, Lukashenko in Bielorussia, o di molti sostenitori di Putin in Russia). Non è un mistero, del resto, che la Russia di Putin finanzi proprio quei movimenti di estrema destra europei cui lei accennava.
Pensavamo che Auschwitz fosse un “vaccino” sufficiente a impedire la rinascita del virus totalitario, ma abbiamo visto che non è così. Perché?
Ad Auschwitz abbiamo assistito al consumarsi del virus nazionalsocialista nella sua fase acuta. Per paradosso, la Shoah ebraica segna l’ingresso del nazionalsocialismo nella sua fase finale: dopo aver incenerito gli “insetti nocivi”, ha iniziato per così dire a divorare se stesso. Auschwitz però non funziona da anticorpo in assoluto, perché è legato a un’esperienza storica, per quanto unica, e dunque temporalmente delimitata. Invece il virus totalitario, come quello organico, è sempre all’opera per conquistare nuove cellule bersaglio. La forza dell’oblio collettivo, per così dire, lavora a suo favore.
Come una malattia che si propaga in modo indipendente dalle “qualità” del paziente, il virus totalitario, scrive, ha una sua vitalità biologica capace di diffondersi in diversi contesti e culture. Se l’abbiamo vista all’opera nel nazifascismo e nello stalinismo, oggi pervade il mondo islamico. Come fermarne la diffusione?
Lo scopo del virus, refrattario a qualunque considerazione politica o morale, è quello di espandersi indefinitamente utilizzando qualsiasi materiale disponibile: inutili dunque i pacifismi, seppur animati dalle migliori intenzioni. L’unica difesa possibile è “affamare il virus” – cioè circoscrivere l’infezione con tutti gli strumenti a disposizione: culturali, religiosi, politici, economici, diplomatici, militari – in attesa che esso perda energia e forza propulsiva. Questo deve necessariamente accadere, a causa dell’enorme consumo di energia che comporta la sua stessa avanzata. E, quando il virus non trova più niente da divorare, inizia a divorare se stesso.
Ester Moscati
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