di Ugo Volli
Nella storia degli ebrei l’esilio (o più in generale la diaspora), ha un ruolo e una dimensione senza paragoni con nessun altro popolo. Anche senza contare l’esperienza dell’Egitto, fondativa e proprio perciò precedente alla dimensione storica del popolo ebraico, l’esilio babilonese marcò in maniera indelebile la sua identità. Dalla colonizzazione romana alla fondazione dello Stato di Israele corrono 19 secoli, in cui gli ebrei vissero sempre sotto il dominio di altri popoli, per lo più fuori dalla loro terra e discriminati in quanto stranieri e infedeli. Nessun popolo ha resistito a tanto. Ma la diaspora volontaria in Egitto, in Babilonia, a Roma e in altre terre mediterranee è iniziata ben prima della distruzione di Gerusalemme, mostrando una caratteristica vocazione centrifuga, che ancora oggi sussiste. Talvolta questa dispersione ha portato all’assimilazione di individui e comunità, ma quel che sorprende è che, per lo più, ciò non sia accaduto. Anzi: che il popolo e la cultura ebraica abbiano conosciuto momenti di grande fioritura anche nella diaspora e che non si sia mai perduta la comunanza fra gruppi che vissero per secoli fra Yemen e Polonia, Spagna e Mesopotamia, spesso dovendo emigrare ancora dai loro luoghi di insediamento e adottando costumi e parlando lingue assai diverse. Comprendere questa capacità del popolo ebraico di sentirsi unito, pur nella dispersione politica e geografica, è una grande sfida per le scienze sociali. È chiaro che la codificazione biblica e talmudica non solo dei rituali liturgici ma di tutti gli elementi fondamentali della vita, dal cibo al diritto, dalla vita familiare all’economia, è stata determinante, come lo è stato l’uso di ebraico e aramaico come lingue liturgiche e di studio, – anche se nel quotidiano le comunità parlavano lingue locali -.
Una risposta ulteriore viene da un libro piccolo ma prezioso del grande storico Yoseph Haim Yerushalmi, appena pubblicato da Giuntina in italiano. È intitolato Verso una storia della speranza ebraica e raccoglie due brevi scritti: una conferenza del 1984, con lo stesso titolo del volume, e un altro su Esilio ed espulsione nella storia ebraica che risale al 1997. Il punto che Yerushalmi propone di studiare è la coscienza ebraica dell’esilio, innanzitutto in termini di speranza del ritorno nella terra dei padri, per esempio con la promessa pasquale “l’anno prossimo a Gerusalemme”, ma anche nelle preghiere quotidiane, nei matrimoni, ecc. L’altro aspetto però è che se l’esilio è stato percepito come una condizione punitiva, allo stesso tempo si è spesso formato un attaccamento alla “seconda patria” esiliaca, per esempio Granada o altre “seconde Gerusalemme”, tanto che è capitato sovente che gli autori ebrei parlassero di un nuovo esilio quando le circostanze politiche o le persecuzioni li costringevano ad abbandonarle, magari per avvicinarsi alla Gerusalemme vera. Insomma la condizione della diaspora è ambivalente, legami diversi e identità differenti si sovrappongono in maniera talvolta armoniosa e talvolta conflittuale, come ancora sappiamo noi ebrei italiani che sosteniamo Israele e ci proponiamo di tornarvi, ma insieme restiamo attaccati alle specifiche tradizioni “italiane” della nostra comunità e sentiamo lealtà e amore per il Paese in cui viviamo.