Yerushalmi e lo studio storico e filologico sui documenti che testimoniano del rapporto di Freud con l’ebraismo

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Anche se non è certamente l’unico storico recente di origine ebraica (basti citare Marc Bloch, Sigmund Ginzburg, Arnaldo Momigliano, Erwin Panofski, Gershom Scholem), Yosef Hayim Yerushalmi è stato probabilmente il più importante storico dell’ebraismo della seconda metà del secolo scorso, nel doppio senso di appartenere pienamente e con convinzione alla cultura ebraica e di aver fatto delle vicissitudini del popolo ebraico, in particolare del mondo sefardita, il proprio oggetto di ricerca.

 

Con il suo libro Zakhor del 1981 (pubblicato in italiano nel 1983 da Pratiche editrice, poi ripreso da Giuntina nel 2011) Yerushalmi è stato anche un teorico importante sul tema del peculiare rapporto che il mondo ebraico ha sempre tenuto con la Storia e con la Memoria – due concetti che vanno tenuti ben distinti, ma che riguardano entrambi la consapevolezza di un popolo del proprio passato, delle proprie tradizioni, della propria identità.

Ora Giuntina ha appena ripubblicato un altro libro di Yerushalmi, anch’esso esterno al suo percorso di ricerca più specifico. Si tratta di Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile, che era uscito in inglese nel 1993 e tradotto in italiano nel 1997 da Einaudi. Si tratta di un’analisi dedicata all’ultimo saggio di Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica (pubblicato in italiano fra l’altro da Bollati Boringhieri), che il fondatore della psicoanalisi pubblicò quando era già molto malato e in esilio a Londra, nel 1938.

Riassumendo molto, vi si sostiene che Mosè non era ebreo, ma egizio, che aveva appreso il monoteismo dal faraone Ikhnaton e, dopo che costui era stato eliminato dal clero dell’Egitto per questa posizione religiosa, aveva radunato un gruppo emarginato di semiti, i futuri ebrei, trasmettendolo loro; ma che essi si erano poi ribellati per l’eccessivo rigore delle sue norme e l’avevano ucciso, rinunciando alla sua religione; che questo crimine era la ripetizione dell’uccisione del capo della tribù primitiva che Freud aveva ipotizzato in Totem e tabù come fondamento della civiltà umana; che però dopo secoli il messaggio religioso di Mosè era riemerso in qualche modo, avvolto nel senso di colpa per l’omicidio; che la morta di Gesù di Nazaret era stata una ulteriore ripetizione del delitto e che l’antisemitismo deriva dal “ritorno del rimosso” di questa catena di traumi. Yerushalmi è critico rispetto a questa ricostruzione che non ha evidentemente nessuna prova storica e può essere ricavata dalla narrazione biblica solamente con una interpretazione molto poco rispettosa del testo. Quel che gli interessa però non è discutere la fondatezza di tali tesi, bensì le ragioni che indussero il fondatore della psicoanalisi a pubblicare un’opera così polemica nei confronti della memoria ebraica, nel momento in cui la persecuzione nazista era già iniziata e Freud stesso ne era stato colpito e costretto alla fuga.

Anche se accetta la terminologia e dunque il quadro teorico della psicoanalisi, Yerushalmi si impegna in un dettagliato studio storico e filologico sui documenti che testimoniano del rapporto di Freud con l’ebraismo, molto più intensi e profondi di quanto egli non volesse ammettere in pubblico. Non si tratta solo di un problema biografico, per quanto appassionante. In gioco è la stessa psicoanalisi e il suo carattere di “scienza ebraica”, che Freud temeva come una grave limitazione per la sua creatura, ma che oggi possiamo considerare come uno dei contributi della cultura ebraica alla modernità.