di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Calma e gesso. Concentriamoci: si tratta, a seguire, di parole difficili, complicate, complesse. Per alcuni – forse – noiose. Tuttavia necessarie. Imprescindibili. Dobbiamo quindi, a tale riguardo, capirci nel merito. Ossia, ritornare a comprenderci, evitando scorciatoie così come, soprattutto, etichette di comodo. Tra di “noi”, tali poiché capaci di riconoscerci vicendevolmente come esseri umani. Quindi, nelle nostre rispettive pluralità di gruppo. Nonché, in quelle che sono le fragilità individuali. Al netto di qualsiasi “identità” precostituita. Poiché, per quanto quest’ultimo riscontro, a conti fatti, possa anche non piacere, la vera forza che invece si accompagna alla specificità di appartenenza – altrimenti intesa come condizione incontrovertibile e indiscutibile – non è mai data da un granitico monolitismo di facciata bensì, semmai, dalla capacità di tenere insieme parti tra di loro dissonanti. Quindi, nel merito di persone tra di loro concretamente differenti. Come anche, e soprattutto, nelle stesse persone, intese nel loro costituire delle individualità stratificate.
Si è infatti individui non per l’essere il risultato di una costruzione granitica bensì come prodotto di un percorso nel tempo. Poiché ognuno di noi è un soggetto storico, in quanto somma su di sé, quindi nella sua propria concretezza, molte esperienze, molteplici saperi, tantissime relazioni. A tratti, tra di loro, assai spesso contraddittorie. Se così non fosse, vivrebbe altrimenti in una bolla tanto autarchica quanto autoritaria, nonché illusoria, quindi destinata – prima o poi – ad esplodere. Annullandosi e non lasciando dietro di sé nessuna traccia. Se si rivendica umanità per sé stessi, non la si può poi negare agli “altri”. Amalek – altrimenti – riposa in una tale “indifferenza”. Quella che finge, e non meno ferocemente simula, una possibile distanza rispetto al resto della società umana. Una condizione che – nei fatti – non si può dare se non attraverso la menzogna del considerasi “superiori” al resto della società circostante. Già sappiamo, a nostro onere, cosa e quanto questa vigliaccheria implichi. Il ricorso al richiamo all’indifferenza, non a caso, è allora in sé una sincera espressione di quanto si vuole evitare di vedere ripetersi.
Un riscontro del quale Liliana Segre ha investito il Memoriale della Shoah, quello che conosciamo come “Binario 21”. La qual cosa, che per nulla può sorprendere, ha comunque implicato, per soloni interessati, apologeti di circostanza come anche – e soprattutto – negli abituali detrattori, denigratori, diffamatori di qualsivoglia genere e risma, l’azzeramento dei suoi tanti significati. Il rimando all’indifferenza, infatti, non è solo il richiamo alla mancanza di vigilanza morale, alla defezione etica che accompagnano abitualmente le nostre società. Semmai è il riscontro dell’incapacità di comprendere che è umano quello che è molteplice, plurale, quindi basato sulla coesistenza delle differenze. Di qualsiasi genere e natura.
Anche per tutte queste ragioni, la facile via della prevaricazione, per appianare i conflitti d’interesse, non costituisce solo un peccato morale ma anche, e soprattutto, un’illusione materiale, come tale destinata rovinosamente a franare a danno di chi si crogiola in essa. In tutto ciò dicendo, non si manifesta nessuna retorica sentimentale ma solo un riscontro oggettivo: l’ebraismo, nella sua millenaria traiettoria storica, ha retto alla prova degli eventi anche per questa immediata consapevolezza. Che è uno dei nuclei imprescindibili del costituire, un po’ ovunque, l’essere minoranza destinata a non scomparire. Ad oggi, infatti, l’ebraismo diasporico, come anche quello israeliano, continuano a testimoniare dell’espressione di un’assoluta minoranza numerica, posta tuttavia dinanzi a maggioranze in sé mutevoli. Una tale minoranza gode di una non invidiabile “elezione”, che non gli deriva da un’altrimenti malintesa obbligazione divina bensì da un obbligo di fatto: preservare il senso della vita. Che è del tutto trasversale. In quanto attraversa storie, società culture e abitudini distinte.
Come molto altro. Anche per ciò, quando si parla di ebrei, d’Israele e di cos’altro, non ci riferisce ad uno scontro di civiltà bensì al rapporto tra umano e disumano. Non è quindi il confronto tra Gog e Magog, come invece a certuni piacerebbe pensare, per compiacersi di sé stessi. Non è la conta tra parti contrapposte bensì il riscontro che nell’ebraismo alligna, per così dire, la mutevole e intercambiabile linea di divisione tra l’accettabile e l’inaccettabile. Si tratta, in fondo, del fardello di una minoranza storicamente insopprimibile. La quale viene chiamata, suo malgrado, a dire quale sia la distinzione tra plausibile e inaccettabile. Se fosse altrimenti, dell’ebraismo e dell’essere ebrei si sarebbero persi, nel corso dei tempi, necessità così come testimonianze. L’annichilimento e l’annientamento di tutte queste consapevolezze, senz’altro problematiche ma, proprio come tali, vitali poiché esistenziali (in quanto in esse riposa il senso insopprimibile della vita di ogni persona, ebrea o non che sia), è invece la fortuna dei vari fondamentalismi. Che allignano un po’ ovunque. A volte anche in campo ebraico. Azzerando il senso della complessità. Che non è un garbuglio bensì il cuore stesso dell’esistenza alla prova dei tempi. Quelli nostri che, a noi medesimi, paiono assai più difficili e infausti di quelli trascorsi. Posto che a conti fatti non sia necessariamente così. Essere ebrei implica molte cose. A volte, tra di loro, anche contraddittorie.
L’ebraismo, infatti, non è la “patria” del monismo bensì del pluralismo possibile. Storicamente, nel corso delle epoche, si è rivelato essere tale. Anche per tutte queste ragioni siamo tutti “agenti sionisti”, così come vanno dicendo i malaccorti contestatori di non poche piazze. Posto che questi ultimo poco o nulla sappiamo di ciò che è stato il sionismo storico.