Alterità e alterazione: gli ebrei vittime di odio razziale perché pretendevano di essere “troppo uguali” agli altri

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Perché contro gli ebrei e non nei confronti degli “altri”? Dopo avere spiegato quella traiettoria della storia nostrana che trascinò l’Italia intera, dal 1938 in poi, in un drammatico susseguirsi di eventi, verso il razzismo di Stato, fino all’annientamento delle vite durante l’occupazione nazista, la domanda viene formulata dal pubblico con la naturalità di chi chiede un legittimo supplemento di conoscenza. Poiché se è perlopiù accettato il fatto che l’ebraismo italiano, allora come oggi, costituisca parte integrante del tessuto nazionale, è allora difficile, per il comune interlocutore, comprendere l’accanirsi del fascismo contro una minoranza di italiani che raccoglie in sé più aspetti dell’identità della maggioranza dei connazionali.

Quindi, occorre per davvero entrare dentro la logica dell’antisemitismo di Stato per riuscire a formulare una risposta credibile.
In nessun caso gli ebrei furono colpiti per la loro “specificità”: il discorso sul razzismo come odio per il “diverso” qui funziona assai poco se non nulla. In quanto il razzismo si esercita sempre contro un sembiante identitario, ossia una costruzione ideologica che vive di luce sua propria, senza necessitare di riscontri di fatto. Così come è di scarso aiuto lo stabilire acriticamente un nesso diretto e consequenziale tra il razzismo coloniale italiano e quello “in casa” del 1938. Senz’altro il primo socializzò, tra gli italiani, l’abitudine a de-umanizzare coloro che, di volta in volta, venivano additati a bersaglio polemico e poi ad oggetto di discriminazioni. Il pesante caricaturalismo con il quale si deformavano i tratti e la fisionomia delle vittime nasce dentro l’incubatore coloniale, trasfondendosi quindi nella greve polemica antigiudaica. Ma l’inquietante assonanza si ferma a ciò. In quanto l’antisemitismo contemporaneo, semmai, si qualifica come pregiudizio contro qualcuno (e qualcosa) di avvertito come così vicino da essere intollerabile non per le sue caratteristiche (reali o presunte) di alterità bensì per la sua natura di soggetto omologo.

Agli ebrei, infatti, veniva contestato il “volere essere” al pari dei non ebrei, senza tuttavia averne le qualità “razziali”. Da ciò, quindi, l’accusa non di essere portatori di alterità bensì di alterazione: il fingersi come il resto della collettività era il vero “inganno” che doveva essere invece smascherato dal regime. Con l’attivo coinvolgimento di tutta la popolazione italiana. Perché facendo altrimenti, l’ebraismo avrebbe invece inquinato la razza superiore, ibridandola e contaminandola.

Non di meno, ed è un secondo passaggio fondamentale del dispositivo antisemitico, il colpire una minoranza nazionale fortemente integrata, come tale parte attiva nel processo di unificazione identitaria del Paese nel corso dell’Ottocento e del Novecento, implicava l’intervenire pesantemente sulla stessa identità degli italiani, per disporli verso nuovi orizzonti. In altre parole: dopo il 1938, e l’avvio dei processi di esclusione istituzionalizzata, arrivò il 1940, con l’ingresso in guerra dell’intero Paese. Colpire la minoranza “troppo uguale” implicava il lanciare un chiaro messaggio alla maggioranza degli identici, quelli che dovevano aderire supinamente ai cliché del fascismo e del regime: è ora che vi prepariate a nuove prove, evitando esercizi di gratuito e pavido “pietismo”. Così si diceva allora riguardo ai perplessi, coloro che sia pure flebilmente tentarono di articolare un pensiero un poco differente da quello dominante. La stragrande parte restante era peraltro già intruppata verso mete abissali. L’antisemitismo di Stato fu il collante di questi processi collettivi, sradicando ciò che restava del diritto alla “differenza”, sostituito dalla diffidenza sistematica, e contrapponendo al pluralismo residuo l’omologazione al passo delle oche. Puntualmente spennate, nel momento in cui i nodi sarebbero venuti al pettine.