Fare buon uso del termine Memoria e imparare a gestire l’eredità della Shoah

Opinioni

di Claudio Vercelli

Una famiglia di nomadi, perseguitati dai nazisti
Una famiglia di nomadi, perseguitati dai nazisti

Esiste un’unicità della Shoah? In caso affermativo, in cosa consiste? Non di meno, se le cose stanno in questi termini, non si corre il rischio di farla divenire una specie di evento al di fuori della Storia, sospeso nel vuoto, quasi che essa non sia stata invece il risultato della volontà umana? In caso negativo, altrimenti, perché continuare a soffermarsi su di essa quando, come affermano certuni, la Storia “è attraversata per intero da massacri”?

Una risposta lineare, diretta e univoca non è facile dinanzi a quesiti di tale portata. Di Shoah e di “memoria” si è molto parlato in questi anni. Il rischio, evidenziato da certuni, è che alla quantità non corrisponda altrettanta qualità. Ossia, che si creino degli effetti di distorsione, ancorché spesso non intenzionali. Da una parte, l’aspettativa per cui il fatto stesso di richiamarla in molti discorsi pubblici crei non solo una maggiore comprensione del passato ma anche un antidoto nelle coscienze dell’oggi, non produce necessariamente un risultato così scontato. Si possono fare molti inviti al “mai più!” senza che da ciò derivi una reale responsabilizzazione. Dall’altra parte, esiste per l’appunto un problema, al pari di quello che si dà per il ricorso pubblico alla storia, riguardo al buon uso della memoria e, con essa, dei giorni del calendario civile in cui se ne fa menzione. Altrimenti ne può derivare un risultato diverso, se non opposto, rispetto a quello desiderato. La Shoah rimane un evento storico unico poiché sia nelle modalità (lo sterminio industriale, consapevole ed intenzionale, da parte di uno Stato, di una intera popolazione definita secondo caratteri razzisti), sia nell’ideologia (laddove l’antisemitismo nazista è l’esito ultimo di una lunghissima, millenaria tradizione di pregiudizi e avversioni, di cui ne costituisce la sintesi politica) trova scarse rispondenze con altri fatti tragici dell’umanità.

Detto questo, ciò che è unico non è tuttavia, al medesimo tempo incomparabile. Non si tratta di stabilire scale di valore, magari cadendo nel tranello per cui alcune vittime sarebbero degne di maggiore considerazione rispetto ad altre. Semmai bisogna cercare di capire come l’estrema radicalità del genocidio razziale possa aiutarci ad interpretare le nequizie della storia, sia recente che trascorsa. Anche per tali ragioni la comunicazione in materia è molto delicata. Non può essere affidata ad improvvisazioni. In questi anni in molti si sono messi a parlare di Shoah. Con effetti a volte cacofonici, comunque dissonanti. Tante voci, alcune grida, invocazioni retoriche insieme a veri e propri minestroni culturali e ideologici. Tutto sembra essere divenuto «Auschwitz», quasi che l’esserne sopravvissuti rappresenti una sorta di tragico privilegio, come tale da ambire per attribuirlo al proprio blasone civile e morale. La rincorsa a definirsi vittime è, purtroppo, uno degli effetti perversi di queste dinamiche. Molti si sentono in diritto di affermare che le loro sofferenze sarebbero in qualche modo parificabili a quelle avvenute con lo sterminio. In immediata successione segue spesso l’accusa, rivolta agli ebrei, di considerarsi “vittime” esclusive. Anche da quest’ultimo meccanismo, dove peraltro opera un atteggiamento sottilmente antisemita (“volete avere il monopolio del dolore”), deriva il senso della cautela con la quale trattare la questione dell’eredità della Shoah. Che in campo ebraico può avere diversi significati ma non deve costituire una sorta di identità totalizzante. Mentre negli ambiti non ebraici rinvia alla necessità di capire quanto e come la deriva e le perversioni della modernità producano il falso viatico della più gratuita e brutale barbarie. Non si tratta allora di parlare di meno di quel passato ma di capire come meglio farlo. Per se stessi così come per gli altri.