di Claudio Vercelli
Un significativo luogo comune, consolidatosi negli anni Sessanta e divenuto poi abituale argomento di propaganda, è quello che attribuisce ad Israele la natura di «Stato coloniale». Coesistono in esso almeno tre versioni. La prima individua nella nascita stessa dello Stato ebraico un vizio d’origine, ossia quello di essere il prodotto di una volontà colonialista (anglo-franco-statunitense), della quale gli ebrei si sarebbero fatti carico volontariamente, per gli “ovvi” benefici che da ciò gliene sarebbero derivati. La seconda identifica nel sionismo una peculiare «forma di razzismo e di discriminazione razziale» (così la risoluzione 3379, approvata a maggioranza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 10 novembre 1975). La terza, la più recente, attribuisce alla cogestione dei territori della Giudea e della Samaria («occupati», «contesi», «amministrati») la manifestazione di una inconfessata volontà, quella di incorporare ciò che costituirebbe invece il nucleo del futuro Stato palestinese, sancendo la condizione di totale subalternità e di assoluta abiezione delle comunità arabe autoctone. Ad ogni perentoria affermazione fatta in tale senso corrispondono repliche e controdeduzioni che, tuttavia, cadono puntualmente nel vuoto. Poiché l’oggetto di fondo non è la critica delle singole scelte politiche dei governi israeliani bensì la presunzione ideologica che Israele, per l’appunto, sia in tutto e per tutto un «fatto coloniale». Si tratta della demonizzazione aprioristica del diritto all’esistenza del Paese in quanto tale. Qualsiasi cosa faccia non andrà mai bene poiché inficiata dal suo vizio d’origine, l’abusivismo storico. Tale atteggiamento nasce dall’incontro di tre elementi: l’indisponibilità di molte élite mediorientali a dare seguito a percorsi di pluralismo e democratizzazione nei loro paesi; il ricorso ad un capro espiatorio permanente per giustificare i propri fallimenti; il nuovo antisemitismo, che vede nel «sionista» criminale e genocida lo spettro dell’«ebreo» predatore e rapace. Israele, in realtà, è essenzialmente un prodotto della decolonizzazione, dalla scomposizione dell’Impero ottomano (1917-1923) alla cessazione del regime dei mandati europei (1948). L’argomentazione diabolizzante dei suoi detrattori va esattamente capovolta, adottandone il verso contrario. Se il superamento del dominio coloniale europeo è la costruzione di una società nazionale e, poi, la nascita di uno Stato, allora i cento e più anni dell’insediamento sionista testimoniano appieno di questo percorso, con il passaggio dal «popolo d’Israele» alla «nazione israeliana».