di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Tutto ciò che bisogna sapere per contrastare gli odiatori del web e lo hate speech. I nodi problematici sono l’accesso immediato a internet, l’impossibilità di controllare l’origine dei contenuti, la deriva morale e della responsabilità.
Già con la fine degli anni Novanta e la straordinaria diffusione di Internet iniziò una discussione, a più livelli, sugli effetti che il fenomeno della diffusione di massa delle comunicazioni influisse sulla formazione dei sentimenti pubblici e sull’orientamento degli atteggiamenti collettivi. La novità del web era costituita soprattutto dal fatto che gli “utenti” fossero non solo fruitori di notizie ma essi stessi, per più aspetti, generatori delle medesime. Le novità introdotte e consolidate nel tempo, a proposito delle comunicazioni elettroniche di massa, riguardavano in particolare tre aspetti.
Il primo di essi era la facilitazione di accesso alle comunicazioni, dato il progressivo abbattimento dei costi; l’accelerazione della trasmissione dei dati; l’incremento esponenziale del numero di informazioni trattate.
Il secondo rimandava alla sostanziale incapacità di controllare le informazioni, una volta generate, introdotte e poi veicolate nella cybersfera. Chi le aveva create se le vedeva letteralmente sfuggire di mano, in una sor- ta di processo a rimbalzo, o “effetto specchio”, oggi meglio conosciuto nel linguaggio di senso comune come «viralità». Si riconoscevano i produttori iniziali, non le catene di trasmissione e moltiplicazione. Più in generale veniva rilevato come la mancanza di filtri di significato e la carenza di codici di interpretazione che non fossero quelli di cui le singole persone potevano dotarsi, agevolava la diffusione sia di informazione fondate (e quindi condivisibili) sia di veri e propri falsi, le une e gli altri spesso equiparabili nella percezione di molti.
Il terzo fattore, denso di implicazioni, era il ridimensionamento o comunque la necessità di ridefinire la nozione giuridica (ma anche politica e culturale) di giurisdizione, intesa in senso lato come capacità di applicare le leggi d’imperio e di imporne gli effetti. Tradizionalmente l’esercizio di quest’ultima è propria di un soggetto collettivo sovraordinato rispetto alle persone, ovvero lo Stato, intesa in tale senso come esclusiva, non potendo essere condivisa con soggetti terzi o concorrenti. Detto questo, lo Stato, nella tradizione giuridica e politica, esercita per definizione i suoi attributi di potere su una porzione determinata di spazio.
Come metterla con il web, dove invece, in linea di principio ciò che è illimitata è la nozione medesima di luogo, essendo il circuito delle comunicazioni online uno spazio a sé, per più aspetti autonomo rispetto alle società nazionali, quindi privo di con- fini? La discussione sui fenomeni di hate speech ruotava – e continua a
muoversi a tutt’oggi – intorno a queste coordinate di fondo.
Il discorso carico d’odio ha una funzione specifica, ossia quella di legittimare stati d’animo ma anche, in successione, atteggiamenti, procedure e infine condotte collettive di natura avversativa, discriminatoria se non persecutoria. Nel web l’elemento della diffamazione e della lesione dell’altrui dignità rischia di tuttavia di risultare ulteriormente rafforzato, ovvero amplificato, dalla diffusione incontrollata delle affermazioni introdottevi in quella che è divenuta una vera e propria
nuova “sfera pubblica”, che si manifesta parallelamente a quella delle relazioni sociali materiali. Si tratta a tutti gli effetti di un habitat, composto di una pluralità di soggetti, a partire dagli stessi “utenti”, per arrivare ad un complesso sistema di legami di reciprocità, dotati di logiche e capacità d’incidenza sulla vita dei primi.
All’interno di questo ambiente, i fenomeni di hate speech, o di odio online, presentano caratteristiche proprie. La prima di esse è la persistenza, ovvero la possibilità che una singola manifestazione di avversione, legandosi all’architettura della comunicazione, si perpetui nel corso del tempo anche a prescindere da chi l’ha generata.
Non a caso, infatti, il secondo aspetto da prendere in considerazione è che le narrazioni sul web hanno un carattere nel medesimo tempo estemporaneo, aggressivo e circostanziato così come una capacità di costituirsi come contenuti che si legittimano da sé, senza bisogno di riscontri o fonti sufficientemente autorevoli poiché
verificabili.
Ne deriva, nel qual caso, la disposizione a riprodursi come materiale “itinerante”, quand’anche, ancora una volta, sganciato o comunque oramai indipendente dalla sorgente che l’ha originato. Peraltro, i percorsi di hate speech presentano la stessa natura di molte delle altre cose che circolano sulla Rete (gratuità, porosità, trasmissibilità), avendo però l’identico spessore della spazzatura: bassi costi di produzione e alti costi di smaltimento; pervasività e cumulatività, non diversamente da certe discariche non autorizzate, in genere collocate ai bordi di strade più o meno periferiche; capacità di riprodursi autonomamente, malgrado i divieti formali in tal senso, essendo dei veri e propri “luoghi comuni” ai quali si rifanno i loro fruitori.
Un terzo elemento, strettamente con- nesso alla permanenza e alla capacità itinerante, è quello che deriva dall’imprevedibilità delle manifestazioni d’odio “virtuale”. Esse si concretizzano a prescindere dalle concrete strategie di contenimento, avendo a che fare con un ambiente di trasmissione la cui regola principe è l’estrema mobilità.
È nella natura della comunicazione online questa “guerra di movimento”, che mette in discussione, come si affermava poco fa, la giurisdizione degli Stati.
Infatti, ed è un quarto passaggio, la transnazionalità dei messaggi pone seri problemi riguardo al loro filtraggio e ad un eventuale contenimento. In ultimo sussiste l’aspetto dell’anonimato, non diversamente da quanto un tempo succedeva con il fenomeno delle denunce non firmate e delle delazioni. Poiché un atteggiamento di
tale genere viene percepito, da chi lo esercita, non solo come una valvola di sfogo ma anche come una espressione del proprio potere di condizionamento ai danni di chi ne subisce gli effetti deleteri.
Nei fenomeni di hate speech si misura non solo il pregiudizio, l’avversione precostituita, la rabbia esibita e molto altro ancora ma anche un secco abbassamento della soglia morale di responsabilità. Il legame che inter- corre tra le catene di “odiatori” è infatti quello della condivisione di un comune risentimento. Ed è allora a questo punto che l’odio online si configura come vera e propria contro-narrazione, una sorta di piccolo universo di significati che vive di luce sua propria, alimentandosi della ossessiva reiterazione, maniacale, dei medesimi, obbrobriosi motivi. Da questi riscontri problematici, quindi, qualsiasi prassi di contrasto non deve prescindere, affinché non si trovi invece da subito obbligata nel- le secche del pedante (e impotente) pedagogismo, nell’accettazione passiva, nel contrasto imbelle, ossia, in una espressione, nella lotta contro i mulini a vento.