di Claudio Vercelli
La vicenda sulla controversa legge di riforma della giustizia in Israele ha riaperto la discussione sulle ragioni storiche e politiche della mancanza di una Costituzione. Come è risaputo, il Paese si è dotato nel tempo di un sistema di Leggi fondamentali. Si tratta di un corpo normativo che, per non pochi giuristi, compone un diritto costituzionale ma, per l’appunto, in assenza di una Costituzione formale, come tale scritta, votata e promulgata. La Dichiarazione d’Indipendenza del 1948 rinvia, nella sua lettera, all’ebraicità, trattandosi del tratto denotativo della comunità nazionale israeliana.
Non di meno la contempera con il richiamo alla forma democratica, in quanto carattere imprescindibile del nuovo Stato. La nozione di democrazia, per tradursi in atti concreti e in fatti tangibili, richiede necessariamente il riconoscimento del pluralismo, senza il quale, altrimenti, rischia di subentrare una sorta di arbitraria gerarchia dei ruoli, delle persone e quindi delle organizzazioni sociali, culturali e civili. Nei moderni Stati, infatti, si è parte di una comunità politica non in ragione delle proprie pregresse appartenenze (lingua, religione, cultura come anche, più ambiguamente, “etnia”, famiglia e così via) bensì in virtù di un comune legame di reciprocità che si fonda sullo stare insieme, sul sentirsi legati reciprocamente, sul ritenersi uguali proprio perché portatori di una propria specificità insopprimibile ma non per questo conflittuale. La lealtà verso le istituzioni pubbliche fa da collante e da garante alla coesione sociale.
L’ebraismo, nel caso d’Israele, è il tessuto connettivo indispensabile sul piano dell’identità. Proprio perché si tratta di un prodotto storico, tuttavia, è esso stesso non solo un richiamo di principio ma soprattutto il risultato dell’ibridazione tra storie e culture diverse. Quindi, qualcosa in movimento, in evoluzione, in trasformazione, se esso è inteso come cornice di riferimento di una comunità politica. L’uguaglianza dei diritti, peraltro, poco o nulla ha a che fare con un qualche obbligo di uniformità etnica. Se fosse altrimenti, la democrazia cesserebbe di esistere. Al suo posto, semmai, verrebbe cristallizzato il principio per cui si è parte della società nella misura in cui si è espressione di un gruppo ad esso preesistente, accedendo alle leggi, fruendo dei beni collettivi, partecipando all’attività pubblica solo ed esclusivamente nella misura in cui quella precedente appartenenza lo concede. Nel qual caso, la cittadinanza, nella sua più autentica concezione liberale, risulterebbe messa in discussione, perdendo quella natura inclusiva senza la quale ritornano inesorabilmente le divisioni tra sovrani, vassalli e sudditi.
Il sionismo politico aveva già dato una sua risposta al problema del rapporto tra democrazia e identità collettiva. Al popolo d’Israele, nella Diaspora, ha infatti affiancato il popolo israeliano. Che non è una “etnia” bensì un vivace coacervo di culture, per buona parte ebraiche, ma non solo, accomunate dal rapporto di lealtà con un centro politico, lo Stato per l’appunto. Nulla di meno, niente di più. Non è poco; semmai è molto. Questa società avanza; tuttavia la sua domanda d’identità, che va riformulata alla luce del mutamento dei tempi, è un interrogativo che prescinde dalle maggioranze politiche del momento ed è destinato a ripetersi sempre più spesso. Una domanda urgente, che è tanto più forte, e non priva di insidie, dal momento che Israele rimane uno dei paesi al più alto tasso di globalizzazione, ovvero tra quelli meglio inseriti nelle dinamiche di flusso che caratterizzano la dimensione “liquida” delle economie e delle società planetarie al giorno d’oggi. Poiché tutta la sua esperienza storica, nonché il retaggio comune all’ebraismo, si basa sulla mobilità, sulla mobilitazione e sull’innovazione.
Mobilità diasporica, ricomposta in una comunità nazionale che, tuttavia, presenta un persistente tasso di trasformazione interna e di comunicazione con l’esterno, cioè con il sistema-mondo; mobilitazione, per l’indiscutibile capacità di attivare gli individui e le risorse, finalizzandoli verso progetti comuni, anche in presenza di grandi ostacoli; innovazione, che è il risultato di una lunghissima confidenza con la cultura e la sua socializzazione. Come si saprà rispondere, quindi, alla dialettica tra necessità di identificare dei confini, sia pure mobili, tra sé e gli “altri”, senza cadere nella trappola della cristallizzazione dell’immagine propria, e il rischio di sradicamento che i percorsi di globalizzazione implicano, è la vera sfida capitale su cui si gioca il futuro di Israele. E non solo, guardando un poco in casa nostra.