di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Non tutto il populismo – termine in sé generico e così abusato da rischiare di non dire più nulla – viene necessariamente per nuocere. Un esempio tra i tanti è quello che rimanda alla presidenza di Franklin Delano Roosevelt la quale, per l’accentramento decisionale che la caratterizzava, per il costante richiamo al «popolo», le continue conflittualità con i poteri federali, insieme ad un più generale stile d’azione e di pensiero, da alcuni politologi e storici è stata annoverata tra le espressioni del populismo del secolo trascorso.Ma al di là di parallelismi storiografici, più o meno fondati, ciò con cui dobbiamo concretamente confrontarci è il radicamento di un fenomeno diffuso, quello della presa elettorale che formazioni politiche che fanno del rifiuto del «sistema» di poteri vigenti la loro bandiera, hanno registrato un po’ per tutto il Continente.
Il populismo si presenta, oggi, come un discorso «per il popolo» di contro agli assetti e agli equilibri emersi dopo la fine del bipolarismo tra Est ed Ovest, con il 1989. Anche per questo ha una natura extra-costituzionale, essendo il prodotto di un sistema politico che si è rigenerato in questi ultimi decenni, a prescindere dalla Costituzione repubblicana, di cui i vecchi partiti erano invece depositari. La sua forza sta non solo nel cavalcare disagi e malumori ma nel presentarsi come capace di dare una forma definita alla moltitudine di persone che, per l’appunto, appella come «popolo sovrano».
Il nesso tra ciò che chiamiamo con il nome di sindemia (l’unione di crisi sanitaria e difficoltà economiche), declino delle sovranità nazionali e affaticamento del ceto medio costituisce una miscela fenomenale, che alimenta ad oltranza questo processo. In ciò si assiste al mutamento radicale del campo della politica, ossia delle sue ragioni d’essere, dei suoi fondamenti, della sua interna razionalità. Se un tempo l’obiettivo che ad essa era assegnato era quello di garantire la coesione sociale, mediando nei conflitti di interessi che attraversano le società, oggi essa ha perso parte di quei caratteri.
Il populismo non è allora qualcosa che va ad inserirsi in ciò che già c’è ma piuttosto un fenomeno composito, multiforme che si sostituisce a quello che c’era e che adesso sembra non funzionare più.
Alle tendenze oligarchiche, presenti nelle nostre società – che affidano a élite ristrette, presentate perlopiù come espressione di una «tecnica» neutra, dove la decisione è un fatto estraneo alle passioni e agli interessi -, si contrappone una concezione giacobina della rappresentanza, quella della cosiddetta «democrazia diretta», basata sul legame immediato, passionale, umorale tra il leader carismatico e la massa di sostenitori.
La politica, d’altro canto, non è solo un processo razionale, mischiando piuttosto il calcolo alla fantasia, l’interesse alla passione, la storia al mito. I movimenti populisti si alimentano sempre dei fattori secondi in questi binomi (fantasia, passione, mito). Portandoli a potenza critica e offrendoli ai loro sostenitori come la soluzione dei problemi complessi. Il populismo contemporaneo, infatti, nega alla radice la complessità delle nostre società. La sua logica è rigorosamente binaria: sì o no, giusto o sbagliato, vero o falso e così via, raccogliendo facilmente seguito tra quanti si sentono colpiti dagli effetti delle trasformazioni collettive sulle quali non possono incidere in alcun modo.
Il populismo dà così voce al senso di alienazione, di marginalità e di espropriazione che attraversa le nostre società. Riempie quindi un tale vuoto, dà forma e sostanza alle paure, le guida verso obiettivi generici, perlopiù capri espiatori, ridisegna l’orizzonte introducendovi promesse, speranze così come invettive e proscrizioni. Non basta, rispetto a questa deriva, richiamarsi ai principi civili. Il populismo è infatti oltre essi, avendoli piegati alla sua lettura. Il che costituisce una sfida a pieno titolo, richiedendo che ad esso sia data una risposta non solo di ordine moralistico bensì strutturale, rinviando ai modi (o all’assenza di modi) con cui le nostre società integrano gli individui o li pongono nelle condizioni di sentirsi emarginati al punto tale da non avere più nulla da perdere nel metterne in discussione gli assetti profondi e altrimenti condivisi.