di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Lungi dall’avere archiviato la conflittualità tra società e Stati, il post-1989 ha semmai aperto nuovi orizzonti di tensioni. Non solo non si è trattato della “fine della storia”; semmai ne ha comportato un’accelerazione. Lo scenario internazionale, infatti, è mutato radicalmente rispetto ai decenni precedenti.
L’eclissi del bipolarismo ha senz’altro rotto la cornice all’interno della quale si consumavano le contrapposizioni trascorse. Con esse, anche delle regole implicite che le contraddistinguevano: i conflitti armati dovevano consumarsi preferibilmente nelle aree “periferiche” (non l’Europa, non gli Stati Uniti, non l’Unione Sovietica e la Cina o il Giappone ma i paesi marginali); sussisteva un “equilibrio del terrore”, soprattutto di ordine atomico, che implicava dei limiti all’eterna partita della contrapposizione, per cui nessuno dei due “azionisti di maggioranza” poteva pensare di dare scacco matto all’altro; ogni paese doveva non solo rispettare l’alleanza alla quale apparteneva ma anche porsi il problema del consenso interno, pena altrimenti rivolgimenti e tensioni insopportabili.
C’era anche dell’altro ma ci risparmiamo la lunga lista. Se è improprio definire l’attuale stato delle relazioni internazionali come contrassegnato dall’anarchia, tuttavia è non meno vero che diversi protagonisti si stanno adoperando per costruire nuove aree egemoniche, a rischio di porsi in frizione con ciò che già esiste. Conta molto – come già nel passato – il ruolo delle economia internazionale, il peso dei mercati e l’insieme di quei processi che, a vario titolo, definiamo con il nome di “globalizzazione”. Per lo storico, molte cose non risultano troppo sorprendenti.
In fondo, il racconto del passato è soprattutto la narrazione del continuo mutamento e di come tutto ciò avvenga sempre e comunque all’insegna della complessità, ovvero della molteplicità dei fattori che, sommandosi, producono poi risultati per buona parte inizialmente imprevedibili. In altre parole, alle strategie consapevoli degli attori in campo si sommano fortune e sfortune, imponderabilità e casualità. Detto questo, rimane l’aspetto di un presente perlopiù indecifrabile o comunque per molti aspetti opaco. Rispetto ai decenni trascorsi, infatti, la tangibilità di certi processi – e quindi anche la calcolabilità e la prevedibilità nei loro effetti – sembra quasi sfarinarsi. Entrano in questo novero di riflessioni anche le difficoltà in cui versa l’Unione europea.
Il rimando ai problemi che l’attraversano è parte del più ampio processo di ridimensionamento e trasformazione di quelle organizzazioni internazionali, anche molto diverse tra di loro, che sono nate e cresciute all’ombra del dopoguerra e, per l’appunto, del bipolarismo. Venuto meno quest’ultimo, le prime stanno rivelando un deficit di potere crescente. Non solo non contano più come prima ma non costituiscono neanche la sede privilegiata dei processi decisionali. Ci siamo quindi resi conto, sempre più spesso a nostre spese (d’altro canto, se le cose non le si misura sulla propria pelle, difficilmente se ne coglie l’effettivo impatto), che l’età nella quale siamo entrati è comunque contrassegnata dall’instabilità così come dal mutamento persistente. Ci sentiamo quindi instabili, cercando di dare a questa sensazione, spesso sgradevole, un qualche nome, una specie di forma riconoscibile, ossia dei significati riconducibili ad un criterio di razionalità condivisa.
Il ritorno dei temi sovranisti, identitari ma anche di forme diffuse di intolleranza, stanno all’interno di questa dinamica collettiva. Lo stesso fenomeno del “populismo”, più volte richiamato, comunque assolve in qualche misura a questi bisogni. Alla radice di un disagio diffuso ci sono tuttavia molti fattori. Su un piano sistemico, senz’altro c’è la crisi della politica. Non parliamo di una categoria astratta. La politica senza risorse materiali, infatti, è come un corpo senza arti. Ha un tronco ma è sprovvisto di braccia e gambe. Contrariamente all’opinione che molti coltivano (o alla quale fingono di credere), se la politica è progetto e investimento, essa non può basarsi solo su istanze valoriali. Nessuna organizzazione collettiva, a partire dagli Stati, può reggersi in piedi solo sulla scorta di una mera intenzione di principio, per buona che essa sia. Tradizionalmente, lo Stato esiste – ossia, ha legittimità e credibilità – se riesce a regolare gli interessi pubblici. Nessun mercato lo potrà sostituire in tale funzione. Né le fantasiose teorizzazioni su “comunitarismi” di vario genere. Semmai potrà darsi una qualche forma di integrazione, di scambio reciproco ma solo se il “pubblico” e il “privato” riusciranno a coesistere e a interagire.
Gli esprimenti e i tentativi di inglobare l’uno nell’altro, cancellandone l’autonomia di uno dei due soggetti, sono storicamente falliti. Spesso con effetti disastrosi. Oggi gli Stati nazionali sono palesemente in crisi. Anche per questo si parla di ritorno del “sovranismo”, segnalando quest’ultimo il disagio che deriva dalla crescente consapevolezza delle difficoltà in cui si trovano ad operare le autorità nazionali. La globalizzazione dei mercati ne ha ridimensionato, e non di poco, spazi d’azione e poteri decisionali. Non è vero, quindi, che le cose sia incomprensibili: processi migratori, trasferimenti di risorse, nuove egemonie, in poche parole fortune e sfortune di intere collettività non sono certo una prerogativa del solo presente.
Ma quello che sembra completamente mancare è quel bandolo della matassa a partire dal quale cercare di ricostruire un discorso collettivo sulla gestione di processi così importanti da sfuggire alla capacità del singolo di guidarli, benché i loro effetti ricadano direttamente sulla vita quotidiana di tutti noi, singoli individui, “privati”. E sempre più spesso provati dall’ansia di un mutamento che è tanto concreto quanto ineffabile.