di Ester Moscati e Fiona Diwan
Lo Stato di Israele è nato da 10 anni e il primo ministro David Ben Gurion si trova di fronte a un grave problema, che può cambiare il futuro del giovane Paese. La Legge del Ritorno, promulgata dalla Knesset nel 1950, è per certi versi in contrasto con la Halakhà, laddove consente di diventare cittadino israeliano anche a chi abbia relazioni parentali con ebrei, al di là della discendenza matrilineare. Nel luglio del 1958 una commissione governativa viene investita del compito di decidere in merito all’iscrizione allo stato civile dei figli di matrimonio misto. Questo è fonte di discussioni, polemiche, dolorose lacerazioni. Perché in Israele c’era, e c’è tutt’ora, un vuoto giuridico, un vulnus, nella legislazione dello Stato, che ha delegato alcune questioni, il matrimonio ad esempio, alle autorità religiose, tagliando fuori tutto ciò che altrove è materia “civile”, laica, secolare. Così Ben Gurion prende una decisione: interpellare 50 saggi d’Israele, cui porre la domanda “Che cosa significa essere ebreo?”.
Grazie a Proedi, all’Ucei e all’Associazione Hans Jonas, oggi possiamo leggere le risposte dei Saggi (Eliezer Ben Rafael, Che cosa significa essere ebreo? 50 saggi rispondono a Ben Gurion, Proedi editore, ebook gratuito sul sito www.proedi.it). E sono risposte plurali, complesse, che testimoniano di un universo ebraico fatto di tradizioni diverse, sensibilità, storie e stili di vita a volte molto contrastanti, che tuttavia hanno un comune denominatore: l’orgogliosa, pervicace rivendicazione della propria identità. “Io sono ebreo”. Le voci sono quantomai autorevoli, e David Ben Gurion ha il merito, inconsapevole, di aver travalicato la necessità contingente del suo quesito per fornire, anche a decenni di distanza, un compendio variegato e di rara profondità per la riflessione sul tema dell’identità ebraica, in tutte le sue declinazioni.
La spinosa domanda è stata anche al centro del progetto, che oggi è una mostra fotografica, Essere ebrei / un progetto sull’identità ebraica, del fotografo austriaco Peter Rigaud, oggi a Palazzo Sormani, organizzata grazie alla Biblioteca Comunale Centrale di Milano e il Forum Austriaco di Cultura. Nato nel 2011 in collaborazione con il Museo Ebraico di Vienna, Essere ebrei è un progetto che racconta l’identità ebraica attraverso una serie di ritratti e che viaggia attraverso l’Europa continuando ancora a crescere. Chi sono gli ebrei? Su cosa si fonda l’identità ebraica individuale? Sulla base di queste domande il fotografo ha intervistato e ritratto alcuni modelli, chiedendo poi a loro di indicare un’altra persona da fotografare. Il progetto si è così sviluppato attraverso una serie di dittici, che si moltiplicano di città in città. I pannelli esposti presentano a sinistra la persona intervistata (ego) e a destra l’altra persona (l’alter ego). Un concetto che ha permesso alla serie di crescere in maniera imprevedibile, lasciando emergere storie, intrecci, spaccati di vita, voci, assolutamente sorprendenti. Tra i milanesi prescelti per i ritratti di Peter Rigaud ci sono Joseph Sassoon, che ha indicato come alter ego Yoram Ortona, e Ester Silvana Israel che ha segnalato il marito, Enrique Konigsman.
Ma di che cosa parliamo quando diciamo Io sono ebreo? Risponde per primo Joseph Sassoon: «Sono ebreo perchè mi sento parte di una storia e di un destino. Sentire di appartenere a un popolo con uno spirito molto speciale. Sentire un legame profondo con una religione e una lingua. Sentire che quando sono in Israele sono a casa mia. Sentirmi immediatamente vicino ad altri ebrei incontrati per caso, magari di Paesi molto lontani. Sentire che non potrei essere altro. Questo è per me l’identità ebraica. E una ulteriore dimensione di questa identità è il desiderio che i miei figli proseguano nel cammino della vita come parte di Am Israel, e così i miei nipoti e le generazioni future. Comunità e identità sono poi legate da un vincolo importante. Un legame che nel corso della mia vita è stato soggetto ad oscillazioni, a volte più forte, altre meno. Penso che nella diaspora sia molto importante mantenere il legame con la Comunità perché aiuta proprio a mantenere l’identità. Anche se non penso che il sentirsi “fuori luogo”, “erranti”, sia una condizione necessaria dell’essere ebreo. In Israele, mi sento a casa, mentre in Italia sento comunque il legame con Israele. Lo “spaesamento“, quando c’è, è determinato dalle condizioni storiche cui il popolo ebraico è stato soggetto, non da qualcosa insito nell’anima ebraica. In Israele questa tensione, quando c’è, può finalmente trovare pace. È stato piacevole fare parte di questo progetto fotografico, penso che il fotografo Peter Rigaud sia riuscito a cogliere i tratti peculiari e differenti di ciascuno. Ho segnalato Yoram Ortona per la sua passione, per l’entusiasmo e la generosità con cui vive la sua identità». La parola quindi Ortona: «Che cosa significa per me essere ebreo? Penso che la mia identità ebraica, andando avanti negli anni, si sia rafforzata, proprio come senso di appartenenza ad un popolo antico, complesso, variegato eppure moderno. Con una sua lingua, riscoperta nella quotidianità dopo secoli, grazie a Ben Eliezer, e la sua terra. L’identità ebraica è per me la percezione spirituale e sentimentale di una tradizione religiosa e del legame – fortissimo – con la terra dei Padri.
Legame oggi rafforzato, reso più saldo dal fatto che mio figlio ha scelto di vivere in Israele. Anche se, va detto, io non sono cittadino di quello Stato, e mi sento cittadino italiano – pur essendo nato a Tripoli, la mia famiglia era italiana da secoli, mio nonno ha combattuto nella Prima Guerra Mondiale, e io sono impegnato attivamente nella società italiana -; ma l’amore verso Israele resta fortissimo. Penso inoltre che la crisi che l’Italia e l’Europa stanno attraversando, – non solo economica ma soprattutto di valori -, abbia rafforzato in me l’appartenenza ebraica, con tutto ciò che comporta proprio in termini di valori. Non potrei mai rinunciare alla mia identità e neppure a Israele. L’atmosfera che si respira oggi in Europa, con la rinascita di nazionalismi e dell’antisemitismo in Francia, Belgio, Ungheria, Ukraina… mi fanno vedere sempre di più Israele non come un rifugio, ma come una meta ideale. È un paese antico e moderno insieme e il mio rapporto con Israele mi rende più sicuro anche come ebreo italiano, più libero di manifestare la mia identità. Si fa fatica, oggi, a vedere il futuro dell’Europa, alla quale pure la civiltà ebraica ha dato tanto. I padri fondatori di Israele venivano da qui, il legame c’è ed è forte, ma oggi la situazione è davvero grave. Gli ebrei fuggono dalla Francia, è terribile…
Per me e per mia moglie è stato importante trasmettere ai nostri figli la tradizione e l’identità ebraica, anche se li abbiamo lasciati liberi di seguire la loro strada. Ciascuno ha scelto il proprio percorso e sono entrambi legati al nostro popolo. Poi, sono stato segnato profondamente dalla fuga da Tripoli, a 14 anni. Negli anni, anche con l’impegno nelle istituzioni ebraiche, in Comunità e all’UCEI, la mia identità ebraica si è sempre più consolidata. Nel ’67, durante la guerra dei sei giorni, fu chiesto a David Ben Gurion: che cosa significa essere ebrei? La risposta: Essere ebrei significa chiedersi ogni giorno che cosa significa essere ebrei.
Ho partecipato alla mostra Essere ebrei del pittore Peter Rigaud grazie all’amico Joseph Sassoon, che ha indicato il mio nome e gli sono riconoscente. Il fotografo è riuscito a cogliere, in ogni ritratto, i sentimenti di stima, affetto, memoria, amicizia che legano i soggetti dei dittici».
Ester Silvana Israel Konigsman «I miei nonni o, meglio ancora, i miei bisnonni non avrebbero avuto nessuna esitazione nel rispondere a questa domanda. Per loro la definizione dell’identità ebraica era in qualche modo automatica. Erano ebrei perché i loro genitori erano ebrei, perché i loro amici erano ebrei e la società attorno a loro li riconosceva come ebrei. In qualche modo posso applicare anche a me stessa quella definizione perché sia mio padre che mia madre appartenevano a due famiglie ebraiche molto tradizionali e hanno trasmesso a me e mio fratello tutto il loro sistema di valori che non poteva che essere ebraico.
Altro è definire l’identità ebraica. Intorno a questo tema si sono svolti innumerevoli convegni e scritti centinaia di volumi. La nascita dello Stato di Israele e le problematiche dell’epoca post-moderna arricchiscono il panorama del dibattito che mai si è esaurito. La mia scelta è stata, ed è, quella di cercare di dare dei contenuti all’ebraismo che mi è stato trasmesso, consapevole di essere parte di un Popolo dalla storia millenaria».
Vita ebraica e Comunità
Ma che cosa deve e può fare la Comunità come istituzione per gli ebrei, perché possano mantere la propria identità nella vita – ebraica – quotidiana? Lo chiediamo a Rav Alberto Somekh, autore tra l’altro del libro Essere Comunità (Morashà).
«Nel recente scambio di opinioni tra Sanino Vaturi e Walker Meghnagi ho visto il ripetersi di una controversia, riportata nelle fonti rabbiniche, su quale linea debba prevalere nella direzione di una Comunità. È il concetto di Rov, maggioranza, che ispira le scelte e le decisioni della vita ebraica. I poli sono però rappresentati da due termini che in ebraico sono quasi un gioco di parole: Minian e Binian. Minian è letteralmente “numero”, mentre Binian significa “costruzione, struttura”. Esiste un rov minian e un rov binian, cioè una maggioranza numerica e una maggioranza della struttura, una sorta di maggioranza “qualitativa”. Possiamo infatti definire Minian l’insieme degli ebrei che sono iscritti alla Comunità, a prescindere dal loro orientamento; mentre Binian è quello che banalmente chiamiamo “lo zoccolo duro”, quelli che si impegnano nella vita ebraica comunitaria.
Quale sia la maggioranza che debba prevalere è questione aperta. È evidente che senza il minian, il “numero”, la comunità non si regge; ma d’altra parte, anche senza la “struttura” una comunità non ha futuro. È imperativo che si trovi un modus vivendi tra le due componenti, e la comunità deve capire in quali campi deve prevalere il rov minian e in quali il rov binian. Insomma, dare a ciascuno il suo. È difficile a volte decidere, può essere indisponente verso una parte; per esempio, sulla questione della kashrut, secondo me, deve prevalere il rov binian. Altrimenti, per non scontentare il “numero”, si punisce chi veramente è interessato a un servizio fondamentale per gli ebrei. Il rov minian può invece essere seguito per tutte le questioni che riguardano la rappresentanza dell’ebraismo verso l’esterno.
C’è un terzo tipo di tematica comunitaria in cui il rov minian e il rov binian possono confliggere, ed è la gestione delle istituzioni comunitarie come la casa di riposo. Qui va assolutamente cercata la mediazione. Nel capito V dei Pirké Avoth è scritto: “Qualsiasi controversia in nome del Cielo è destinata a mantenersi”. Che cosa significa? Propendo per l’interpretazione letterale: la discussione va mantenuta aperta. È sano il dibattito, la ricerca di soluzioni condivise, quando ognuno porta la propria visione delle cose con lo spirito di arricchire l’altro e non di sopraffarlo. La Comunità vive delle due posizioni.
Ma può un ebreo vivere senza comunità? No, non può. Anche se oggi le spinte in questo senso sono fortissime e l’idea stessa di Comunità è in crisi, non solo in Italia. In un mondo globalizzato, la reazione paradossale è quella che gli individui si ripiegano sempre di più verso se stessi. È vitale che la Comunità sappia proporsi, andare incontro agli ebrei, senza dimenticare le proprie fonti ispiratrici, contro le scelte isolazioniste che ci sono sia tra i laici, sia tra gli osservanti. La sfida per la Comunità è quella di contemperare il rov minian e il rov binian, per il bene di tutti».
Identità: riflessioni di Haim Baharier, Roberto Della Rocca, Donatella di Cesare
Sul tema dell’identità ebraica c’è stato anche un recente e vivace dibattito di Kesher, condotto da rav Roberto Della Rocca, alla Residenza Arzaga, ospiti lo studioso di Torà Haim Baharier e la docente di filosofia teoretica all’Università di Roma, Donatella di Cesare. «Difficilmente troviamo nella Torà una definizione dell’essere ebreo. Alla domanda: e tu chi sei?, il profeta Giona risponde “io sono ebreo, yvrì anochì, e temo il Signore del cielo e della terraferma”. Ecco: questa è l’unica volta che troviamo nel Tanach una risposta di qualcuno che definisce se stesso in quanto ebreo», spiega rav Della Rocca. «Oggi, non nascondo di essere un po’ preoccupato. Mi trovo a registrare, con un certo sconforto, che sempre più, gli unici protagonisti della discussione interna e forse i soli vettori dell’identità ebraica sono, ahimè, tematiche come la celebrazione della Shoah e l’ostentazione retorica dello Stato di Israele. Sicuramente due temi forti, importanti, che non lasciano indifferente nessun ebreo, che fanno leva sui sentimenti e il vissuto di ognuno di noi. La Shoah è il dolore della memoria, è la paura del suo ritorno, ma è anche un tema che troppo spesso contribuisce a lavare le coscienze di coloro che ritrovano il loro ebraismo solo pochi giorni all’anno, di quelli che si commuovono per ciò che è stato, dimenticandosi del corpo vivo dell’ebraismo, di tutto ciò che ancora l’ebraismo è, qui e ora. Finendo così per consegnare la responsabilità di una vita ebraica “militante” e attiva a mani altrui, visto che è molto più difficile costruire una vita ebraica giorno dopo giorno che non rimpiangere ciò che altri hanno tentato di distruggere. E che dire di Israele? Un sogno per tutti, certo. Una speranza, ovviamente. Una contraddizione. Ma anche una spada per coloro che lo trasformano in un’arma a sostegno di battaglie ideologiche e strumentali. Israele senza se e senza ma, Israele nonostante tutto, dicono alcuni. Ma troppi di noi hanno costruito proprio dietro a questi temi una identità ebraica povera, senza preoccuparsi di capire e di studiare, senza consapevolezza, senza umiltà. Finendo così per generare una identità fragile e fratturata, facilmente sovrastabile dal contesto circostante che con la forza di uno tsunami può annullarla. Mi spiace, ma non bastano cerimonie commemorative, un viaggio ad Auschwitz, una testimonianza, per sentirsi ebrei.
Non basta inneggiare ad Israele senza sforzarsi di conoscerne la storia, la lingua, la cultura, la letteratura, i dibattiti, le yeshivot, i kibutzim… Non basta parlare a vuoto di “etica ebraica”, come se fosse una coppa riposta in una bacheca, come fosse un trofeo impolverato da sbandierare quando ormai, da ebrei in via di assimilazione, ci ricordiamo distrattamente chi siamo e da dove veniamo. Queste sono scorciatoie identitarie, un pret-a-porter ebraico facile da indossare e a poco prezzo.Ecco perchè la Comunità dovrebbe essere il luogo vivo dove tutti vanno a cercare dialogo e consiglio», dichiara rav Della Rocca, con una riflessione ampia, accorata, che tira in ballo quello che molti considerano essere l’identità ebraica contemporanea. E prosegue: «Oggi molti si sentono ebrei solo se si tira in ballo l’antisemitismo. E così ci si sente ebrei solo davanti al pericolo, solo se in presenza di una sindrome di accerchiamento: (“sono tutti antisemiti e quindi mi devo difendere dal nemico”). A costo di essere sgradevole e provocatorio, io dico che questo è un ebraismo che non sa stare in piedi da solo, non è proattivo, capace di guardare avanti e non invece indietro. Ricordiamoci che gli altri ci vedono nel modo in cui noi ci rappresentiamo. Se noi ci vediamo protagonisti di un ebraismo lacrimoso, con le spalle al muro, in punta di piedi o che si vergogna di respirare, gli altri ci vedranno così. Se noi ci identifichiamo solo con Israele, con la Shoah o con il male che ci viene fatto, penso che questo sia un modo regressivo di coltivare la propria identità; che è invece molto più ricca e complessa di così. Sì, sono preoccupato – conclude della Rocca -: registro un ebraismo a due velocità. Da un lato c’è una maggior autorevolezza del mondo ebraico verso l’esterno, verso le nostre istituzioni pubbliche. Siamo più visibili, più positivamente accolti, più ascoltati. Dall’altro, ci manca una identità autoreggente, capace di stare in piedi da sola. Insomma, non vedo una produzione autonoma di pensiero ebraico, non vedo crescita ebraica: manchiamo di creatività spirituale e forse noi rabbanim dovremmo cercare di rilanciare proprio questa creativitità.
Infine, in tema di identità, vorrei aggiungere qualche parola sugli ebrei che si autodefiniscono “laici” e di “sinistra”, paladini della “democrazia” e del rispetto per gli altri. Li vedo avvicinarsi, con non poca incoerenza, alle questioni “religiose” con il distacco di chi con la religione non vuole sporcarsi le mani. Perché, chiedo loro, non sforzarsi ad assumere atteggiamenti più coerenti, umili?, perché invece di limitarsi a esibire, o a richiedere, solo in poche occasioni strumentali, gli insegnamenti dei Maestri, non cercare di costruire una identità più aderente sullo studio dei testi?».
Per Haim Baharier invece, «essere ebrei vuol dire coltivare una identità di domande e non di certezze: l’ebraismo è molto di più di una religione, è un percorso identitario, è studio e ricerca». Il rapporto con la terra d’Israele è certamente importante, dice lo studioso: ma a patto che sia una terra di santità, una terra donata che va abitata senza essere posseduta, e non una roccaforte religiosa.
«Per secoli, l’ebreo si è identificato con la propria Comunità e penso all’ebreo del ghetto. Poi, con l’avvento dell’Illuminismo, Moses Mendelssohn disse che dovevamo “essere ebrei a casa e cittadini -italiani, francesi, tedeschi…-, per strada”. Per noi, questo non è più possibile. Oggi la modernità ha incrinato questa identità, questo senso di appartenenza», spiega la filosofa Donatella di Cesare. «È molto complesso sapere oggi che vuol dire essere ebreo. Si è verificato quello che io chiamo il Passaggio a Occidente: la modernità e l’assimilazione sono un serio problema. Qual è oggi il compito e il ruolo dell’essere ebrei in Occidente? Come si può essere Comunità mantenendo la propria individualità? Rispondo: solo grazie a un rapporto dialogico tra l’individuo e il gruppo. Spesso oggi assistiamo a episodi di grave intolleranza al nostro interno. Viviamo immersi in un clima di contrapposizione e di conflitto, in una perenne belligeranza, una conflittualità che snatura il senso profondo dell’essere Comunità come luogo di accoglienza, di dibattito, di identificazione. Inoltre, sovente facciamo l’errore di trasferire sulla Comunità la conflittualità quotidiana che emerge nella nostra esistenza. Abbiamo la tendenza ad incolpare gli altri se il nostro ebraismo non ci soddisfa, invece di assumerci la responsabilità chiedendoci: ma io che cosa faccio? Qual è il mio contributo personale al senso del kahal ebraico? Ed è drammatico vedere oggi quanto poco i giovani sentano l’appartenenza alla Comunità».