Eternità e mutamento: sull’idea di “tradizione”. Si sopravvive solo se ci si adatta e si è capaci di cambiare

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Tutto muta. Proprio per una tale ragione, nulla rimane uguale a sé stesso nel corso del tempo. A partire da quel complesso di riferimenti, predizioni (come anche predilezioni) e rimandi che chiamiamo, ognuno per la sua propria specifica parte, con il rimando alla cosiddetta “tradizione”. Poiché essa stessa è – semmai – il prodotto di progressivi adattamenti. Anche se amiamo pensare che possa rappresentarsi come un altrimenti. Ovvero, che sia tradizione quel che, come tale, invece non muta. Mai e comunque. A prescindere, quindi, dalla storia umana. Come se fosse uno scoglio contro il quale si infrangono le onde degli oceani. A conti fatti, nulla si dà di più errato, nella storia dei pensieri collettivi così come delle stesse collettività. Posto che la persistenza millenaria dell’ebraismo ci restituisce non tanto la gelosa affettazione per dei simulacri di immagini, di idee, di pensieri, ai quali legarsi in maniera abborracciata, bensì la necessità, per gli ebrei così come anche per i medesimi noachiti, di andare ben oltre al gioco tra totem e tabù, tra prescrizioni (in sé, assai spesso, un dover essere senza alcuna reale convinzione) e proscrizione (l’esclusione di quanti non aderiscano ad un canone che si finge assoluto e imprescindibile quando, invece, è del tutto temporaneo).

Come la pietra non resiste alla potenza degli elementi naturali, essendone pertanto levigata nel tempo, così l’umanità non potrà mai sussistere se non sappia adattarsi alle condizioni nel mentre date, tali proprio perché mutevoli. Sarebbe altrimenti un atto di alterigia umana il pensarsi come immutabili. Poiché l’immutabilità non appartiene a questa terra ma solo a ciò che la sovrasta e la domina. Proprio la storia della Diaspora ci restituisce questo riscontro: esiste (e resiste) una complessa “identità”, personale come collettiva, nella misura in cui essa sa adattarsi a tempi e luoghi tra di loro molto diversi. La cognizione non tanto di quel che fu ma del fatto stesso che ci sia qualcosa che sta alle nostre spalle rimane essenziale per continuare a darsi una tale identità. Al netto di tutte le elucubrazioni del presente, quelle che schiacciano altrimenti la percezione e le concezioni del passato sui meri bisogni del tempo corrente – a partire da quelli ideologici e politici. Dopo di che, rimane il fatto che la stessa identità ebraica non sarà mai il presidio di un’immaginaria immutabilità bensì la comprensione che siamo, ad oggi, anche e soprattutto il risultato dei tanti cambiamenti che ognuno di noi, quindi il suo gruppo di riferimento nonché la stessa umanità nel suo insieme, hanno nel mentre non solo subito, e soprattutto vissuto, ma anche conseguito in consapevolezza. In tutto ciò, allora, “il re è nudo”.

Ciò che infatti umanamente si finge eterno è, invece, ed esclusivamente, un prodotto della sua stessa epoca. Dinanzi ad un tale riscontro, i più alzano i loro alti lai, ovvero una voce dolente. Ne hanno ragione nella misura in cui cercano di difendere sé stessi, quindi la propria parte, dagli effetti incomprensibili del cambiamento. Il quale – inesorabilmente – investe gli uni (gli individui) al pari dell’altra (la comunità di riferimento e appartenenza, qualunque essa sia). Quindi, le proprie persone nella stessa misura di coloro che stanno ad esse intorno. Così come l’auto-considerazione che di tutto ciò si nutre. Che è quella inconfessabile situazione, altrimenti assai diffusa, per la quale ognuno di noi si pensa come “persona” solo ed esclusivamente se ha degli immediati omologhi nei quali riconoscersi.

L’ebraismo, a tale riguardo, è storicamente una cartina di tornasole di una condizione assai più generalizzata, quindi tanto diffusa quanto assai spesso obnubilata. Quella che, nella dimensione diasporica, rivendica il diritto a un qualche riconoscimento nel momento stesso in cui la propria soggettività viene negata. Non a caso, per capirci, tutto ciò ha generato, nei tempi a noi più prossimi, ciò che conosciamo come psicoanalisi. Che non è solo un mero breviario della coscienza consapevole bensì un’indagine permanente su quello che si cela dietro (e dentro) di essa. Ad oggi, ciò che affligge l’uomo contemporaneo non è mai la discordanza rispetto ad una qualche “tradizione” omessa e tradita bensì l’impossibilità di tradurre la medesima in un progetto a venire. Non difetta il rispetto del passato. Semmai è assente una speranza rispetto al futuro.

Una tale crisi di “civiltà”, che non riguarda la contrapposizione tra civilizzazioni coesistenti, come tali comunque competitive, bensì i conflitti irrisolti in ognuna di esse (a partire da quella occidentale, che invece continua a pensarsi tanto superiore quanto irrevocabile e quindi indistruttibile), trova nel rimando all’ebraismo un suo fuoco centrale. Posto che quest’ultimo è la vera coscienza critica del tempo corrente, volente o nolente. Bisogna comunque bene intendersi, al riguardo. Si tratta infatti di un terreno molto delicato, comunque franoso. Si rischiano, non a caso, molteplici fraintendimenti. Cerchiamo quindi di risparmiarceli. Poiché in gioco – infatti – c’è molto di più di quanto si pensi. Per capirci, non si sta parlando di ortodossie, poste che queste ultime si pensano, a loro volta, come eterne quando, invece, costituiscono il prodotto di circostanze storiche. Semmai ci si riferisce al conflitto tra opposte osservanze, tra contrapposte rivendicazioni di “purezza”. Quest’ultima parola, infatti, è quella che ai giorni nostri politicamente riesce a contare di più. Soprattutto nella considerazione di sé stessi. È puro quello che ritiene di aderire a un unico modello di riferimento. È puro in quanto evoca un’appartenenza assoluta, come tale escludente coloro che non ne sono annoverati. È puro ciò che finge di essere al di sopra della storia umana, ergendosi a emanazione di una qualche entità sovra-determinata. Nessun gruppo umano è esente da una tale tentazione. Che si rivesta di rimandi ultraterreni così come mondani. L’ebraismo, a prescindere dalle circostanze del momento, continua a esistere, nel gioco dei tempi millenari, proprio perché invece mette in discussione una tale impostazione. Indipendentemente da qualsivoglia tentazione integralista.