I QUATTRO LIVELLI DELL’ESPIAZIONE

Opinioni

Teshuvah.
Siamo in Elul, l’ultimo mese dell’anno ebraico. Esso precede le grandi festività autunnali di Rosh ha-Shanah e Yom Kippur, i “giorni del Giudizio” ed è particolarmente dedicato alla Teshuvah. E’ questo il pentimento, un impegnativo e laborioso processo di “ritorno” a D., come la parola ebraica stessa etimologicamente suggerisce. Esso consiste, nel pensiero dei Maestri d’Israele, in tre momenti distinti. Uno rivolto al passato, ed è la hakkarat ha-chet, la presa di coscienza degli errori commessi. Tocca soprattutto la sfera del pensiero. Se non ci si rende conto mentalmente che ciò che si è fatto è sbagliato non si può avviare una seria revisione interiore. Il secondo momento riguarda il presente, e consiste nel widduy, la confessione della colpa attraverso l’uso della parola. Qui il solo pensiero non basta più. Occorre avere il coraggio di aprire le nostre labbra e ammettere a voce alta: “ho sbagliato”. Così il processo esce dalla sfera soggettiva ed entra in quella relazionale, oggettiva. Ma il terzo momento è quello conclusivo, in tutti i sensi. Si tratta della qabbalah le-ha-bà: La “accettazione per l’avvenire” di un impegno a non ricadere nella trasgressione. Non è limitato alla sfera del pensiero e della parola. Ora ci troviamo già nella sfera dell’azione concreta. Spiegano i nostri Maestri che il processo di Teshuvah può dirsi completo solo allorché la persona si ritrova nelle stesse identiche circostanze in cui la volta precedente aveva trasgredito (unità di luogo, tempo e azione!) e non ci ricade.


Dove è prescritta la Teshuvah nella Torah? Per paradossale che sia, non vi è alcun riferimento preciso alla Teshuvah fino all’epoca dei Profeti. Nella Torah vi è un solo cenno, nella Parashat Nitzavim di questa settimana che ogni anno viene letta nello Shabbat che precede Rosh ha-Shanah: “E sarà, allorché verranno su di te tutte queste cose, la benedizione e la maledizione che ho posto davanti a te; e risponderai al tuo cuore presso tutti i popoli dove il S. D. ti avrà relegato, farai ritorno al S. tuo D.” (Deut. 30, 1-2). Ma i commentatori ritengono che si riferisca alla fine dei tempi (Nachmanide). All’inizio delle Hilkhot ha-Teshuvah, Maimonide parla del widduy come vera e propria Mitzwah da compiersi “quando si fa Teshuvah”, lasciando pensare che la Teshuvah in quanto tale non sia una vera e propria prescrizione. La realtà è che la Teshuvah, essendo un moto dello spirito, non può essere oggetto di un comando. Siamo noi che dobbiamo avvertirne il bisogno. Se fosse prescritta dall’alto non avrebbe senso. Ecco dunque che la Teshuvah è, in un certo senso, al di sopra delle 613 Mitzwòt.


E’ talmente importante la Teshuvah –scrive R. Yechiel da Roma (sec. XIII) nel suo Sefer Ma’alot ha-Middòt- che il S.B. in persona l’ha prescritta persino… a se stesso, come dice il versetto: hinnenì shav “ecco, Io mi pento!” (Ger. 30,18). C’era una volta un principe ammalato, cui il medico disse: “Se mangi questo cibo, guarirai”. Ma il principe non si fidava. Allora venne suo padre e gli disse: “Per dimostrarti che questo cibo non fa male, lo mangerò io per primo”. Così disse il S. a Israele: “Vi vergognate di fare Teshuvah? Ebbene, sarò Io a fare Teshuvah per primo”. E se il S. che non ha colpe né difetti ha prescritto a se stesso la Teshuvah, tanto più l’obbligo deve valere per gli esseri umani! (Ma’alat ha-Teshuvah). Il paragone fra medicina e Teshuvah mi fa venire in mente un’ulteriore suggestione. Maimonide, talmudista, medico e filosofo, affermava che l’esercizio della medicina è una Mitzwah. Da dove lo si impara? Dal precetto di restituire un oggetto smarrito (Hashavat Avedah: Deut. 22, 1-3). Chi l’ha perduto e sa di poterlo ritrovare non si dà pace nella ricerca. E chi lo trova, ha il dovere di segnalarlo in modo che il legittimo proprietario ne rientri in possesso. Se ciò vale per un semplice oggetto, tanto più varrà se l’individuo ha perduto la sua… salute. E’ dovere suo “ricercarla” e di ogni altro in grado di farlo aiutarlo a “ritrovarla”! Ebbene, un altro Maestro assai più recente, il Ben Ish Chay di Baghdad di cui proprio quattro giorni fa abbiamo ricordato il centenario della morte, soleva dire che la fonte della Teshuvah nella Torah è nello stesso versetto. Anche chi ha perduto addirittura la propria anima deve andarne alla ricerca (P. Ki Tavò). La Teshuvah sta alle facoltà spirituali dell’uomo come la medicina sta a quelle fisiche.


Vedremo che la Teshuvah è sì componente essenziale per conseguire la kapparah (espiazione) in ogni caso di trasgressione, ma non è l’unico ingrediente del processo. Ce ne sono almeno altri due: lo Yom Kippur e le sofferenze. Qual è il rapporto fra di loro?



Le Mitzwòt: obblighi e divieti.

Alla Teshuvah sono dedicate le ultime pagine del Trattato Yomà del Talmud, che si occupa dello Yom Kippur. Vi troviamo scritto:

“R. Matyà ben Cheresh rivolse un quesito a R. El’azar b. ‘Azaryah, che si trovava a Roma: “Hai tu udito delle quattro diverse forme di espiazione, di cui parla R. Ishma’el nelle sue spiegazioni?” Egli rispose: “In verità sono tre, e la Teshuvah è necessaria per ciascuna di esse. 1) Se qualcuno trasgredisce un precetto affermativo (cioè: un obbligo) e poi si pente, viene perdonato seduta stante… 2) Se qualcuno ha trasgredito un divieto e poi si è pentito, il pentimento sospende la punizione e lo Yom Kippur gli procura l’espiazione… 3) Se qualcuno ha commesso una colpa passibile di morte e successivamente si pente, il pentimento ed il giorno di Kippur sospendono la punizione, ma solo le sofferenze corporali completeranno l’espiazione… 4) Però chi ha profanato il Nome di Dio non ha la possibilità, neppure pentendosi, di sospendere la punizione, né gli giova Yom Kippur per l’espiazione, né le sofferenze corporali: qui solo la morte potrà completare l’espiazione” (Yomà 86a).


Matyà ben Cheresh è forse il più antico Rabbino italiano di cui si abbia conoscenza, avendo fondato una Yeshivah a Roma in età adrianea. Nei Pirqè Avòt (4,20) è riportata la sua famosa massima: “Sii coda ai leoni, piuttosto che testa alle volpi”, che ribalta una opposta massima cesariana (cfr. Plutarco, Vita Caesaris 11, 3-4) e, molto più tardi, fascista. Ma non è questa l’unica ragione per cui è famoso il passo talmudico sopra citato. Maimonide lo codifica, vale a dire, lo assume come verità della Torah (Hil. Teshuvah 1,4). E’ importante sottolineare come egli introduce le quattro (o tre) distinzioni: “Pur se la Teshuvah espia tutte le colpe e pur se la potenza dello Yom Kippur espia, ci sono delle colpe che vengono espiate subito, ed altre che non vengono espiate se non dopo un certo tempo”. Chi ha sbagliato deve imparare dunque a pazientare.

Una prima distinzione è fra le Mitzwòt ‘Asseh e le Mitzwòt lo Ta’asseh. E’ noto che i 613 precetti della Torah si dividono in 248 obblighi, pari al numero delle nostre membra e 365 divieti, pari al numero dei giorno dell’anno solare. Il sole, si sa, è il re della natura. Un re ha il compito di esercitare un controllo sul proprio regno affinché nulla travalichi l’ordine prestabilito. Ecco perché i divieti, che sono gli strumenti disposti a tale scopo, sono stati fissati secondo un numero simbolico che fa riferimento al sole. Ma “sotto il sole” si colloca la figura umana, che ha il compito di portare a compimento l’opera della creazione mediante azioni meritorie. Ecco perché gli obblighi sono stati stabiliti in numero corrispondente alle parti del corpo umano (Maharal di Praga, Tif’eret Israel, 4).


Nel Talmud ci si interroga se siano superiori gli obblighi o i divieti. L’antico diritto biblico comminava la pena della fustigazione solo per l’infrazione ai divieti (Deut. 25,20 e Makkot 13), il che farebbe pensare che infrangere i divieti sia più grave. Secondo una scuola di pensiero, però, questo valeva solo in riferimento alle punizioni corporali comminate dall’uomo allorché questi aveva l’autorità per farlo, ma ora che ciò non è più possibile, di fronte a D. obblighi e divieti hanno lo stesso valore. Prevale però l’opinione opposta condivisa, come si è visto, anche da Matyà ben Cheresh. Sul piano divino come su quello umano si richiede una procedura di espiazione più rigida per l’infrazione dei divieti rispetto agli obblighi. Perché? Perché se si è mancato ad un obbligo è sufficiente adempierlo, e il fatto di adempierlo “recupera” la Mitzwah perduta e ciò è sufficiente a confermare che il trasgressore ha fatto Teshuvah.
Ma nel caso dei divieti la sola Teshuvah, il buon proposito, non basta. La trasgressione è ora consistita non in una semplice omissione, ma in una iniziativa sbagliata, che va anzitutto cancellata. Per questo, oltre alla Teshuvah, è qui richiesto l’intervento dello Yom Kippur. E se la trasgressione è stata talmente grave da essere meritevole, in altri tempi, della pena capitale? Vengano ora anche le sofferenze fisiche, per mano del buon D., a sancire la “riconversione” del peccatore: naturalmente, con il concorso indispensabile della Teshuvah e dello Yom Kippur (Maharshà).



Il giusto e il penitente.

E’ talmente importante la Teshuvah che i Maestri del Talmud arrivano ad una affermazione paradossale. “Il posto che occupano i penitenti (Ba’alè Teshuvah) non sono degni di occuparlo neppure i perfetti giusti” (Berakhot 34b). Come è possibile che il penitente sia superiore al giusto? Questa frase viene così interpretata dal Rav Kook. Possiamo paragonare l’anima del giusto ad un torrente di montagna. Essa “fluisce”, con le sue influenze spirituali, come l’acqua del torrente. Ma ad un certo punto una barriera viene a frapporsi al corso del torrente. Sono le trasgressioni. Queste hanno sì la forza di fermare il corso delle influenze, ma non di impedire che l’acqua continui a sgorgare alla sorgente. L’anima, “parte Divina dall’Alto”, in quanto tale resta pura e continua a scaturire acqua. Immaginiamoci una diga in montagna. Se non viene prontamente rimosso, lo sbarramento finirà per dar luogo ad un lago sempre più vasto. E cosa succede una volta che la persona fa Teshuvah? La diga delle trasgressioni si infrange, apre i battenti. E tutta l’acqua precedentemente accumulata nel bacino, tutte le influenze spirituali represse si riversano in basso! Possiamo davvero paragonare la forza di una simile cascata al corso tranquillo del torrente di montagna come ce lo siamo immaginati all’inizio, senza ostacoli?
Un altro grande filosofo spagnolo del Medioevo, Bachyà Ibn Paqudà, analizza lo stesso passo di Yomà per rispondere all’interrogativo: in quali casi il penitente si trova ad un livello più alto di chi non ha mai peccato, come afferma il Talmud? Vi sono tre casi. “Vi è un tipo di penitente che è sullo stesso piano del giusto, un altro che gli è effettivamente superiore ed un terzo che, rispetto al giusto, è in uno stadio inferiore”. Il primo caso è quello di chi si è limitato a trasgredire un comandamento positivo: per esempio, ha trascurato l’obbligo dello tzitzit (le frange agli abiti), del Lulav, della Sukkah (capanna) a Sukkòt o simili. “Quando si sarà pentito col cuore e non solo mediante dichiarazioni, di non aver compiuto tali precetti e si riprometterà di osservarli e di non trascurarli più, allora il Creatore lo perdonerà ed egli sarà uguale ad uno che non ha mai trascurato l’osservanza di tali comandamenti.
“Il secondo tipo di penitente, che si trova ad un livello più elevato rispetto a chi non hai mai peccato, comprende colui che ha commesso la violazione di un divieto”. Il commento è a mio avviso di una modernità straordinaria. In tal caso il penitente è ad un livello più alto perché “dopo essersi pentito in tutto e per tutto di quanto ha commesso, ha sempre presente il suo errore ed invoca sempre perdono di ciò, e ne prova vergogna di fronte al Creatore. Il suo cuore è compreso dal timore della punizione, sente l’animo suo contrito entro di sé e si comporta con profonda umiltà di fronte a D. Il suo peccato lo ha così portato ad una grande modestia e al senso pieno della necessità di assolvere i suoi doveri di fronte al Creatore. Né egli, peraltro, si vanta delle sue buone azioni, che non gli sembrano neppure eccessive a suo giudizio, non se ne gloria e bada bene a non ricadere mai più in errore per tutto il resto della sua vita. Egli si trova ad un livello più elevato di un altro giusto che non ha mai commesso quel peccato od altri analoghi.


“Questo perché, di colui che non ha mai peccato, non siamo sicuri che non insuperbirà ed il suo cuore non sarà orgoglioso e tronfio per le sue buone azioni. Un vecchio detto afferma: “Talvolta un peccato giova più ad un penitente di quanto giovano ad un uomo giusto tutte le sue buone opere e, talvolta, un’estrema pietà è più nociva ad un giusto che tutti i suoi peccati ad un penitente’. Questo avviene quando la religiosità di un uomo lo distoglie dall’umiltà e dalla modestia e lo spinge alla superbia, all’ipocrisia e all’adulazione. Un uomo pio disse un giorno ai suoi discepoli: ‘Se voi foste senza peccati, io sarei preoccupato che voi poteste cadere in qualcosa che è peggiore del peccato’. Gli domandarono i discepoli: ‘Che cosa è peggiore del peccato?’ Rispose loro il pio uomo: ‘L’orgoglio e l’ipocrisia’. Per un simile penitente i nostri Maestri hanno detto: ‘Il posto che occupano i penitenti (Ba’alè Teshuvah) non sono degni di occuparlo neppure i perfetti giusti’”.


Infine, “il terzo tipo di penitente è colui che ha commesso gravi trasgressioni la cui violazione comporta la pena di morte…; dopodiché colui che si pente si ravvede dell’errore e compie intero il suo pentimento. Non è possibile assicurare il perdono ad un simile penitente, dato che egli può essere provato da sofferenze sopportabili e purificarsi così dai propri peccati… Non v’è dubbio che l’uomo giusto che non ha mai commesso tali colpe è superiore ad uno che di queste si pente” (Chovòt ha-Levavòt, Sha’ar ha-Teshuvah 7,8).



Chillul ha-Shem.

Ma c’è ancora un quarto livello che ci attende. Talmente tremendo che R. El’azar ben ‘Azaryah non lo vuol prendere in considerazione. E’ il caso di chi ha commesso la colpa del Chillul ha-Shem, profanazione del Nome di Dio. Costui “non ha la possibilità, neppure pentendosi, di sospendere la punizione, né gli giova Yom Kippur per l’espiazione, né le sofferenze corporali: qui solo la morte potrà completare l’espiazione”. C’è anzitutto da dire che oggi abbiamo perso il senso della morte. Il progresso medico, scientifico e tecnologico, ci ha talmente allungato la vita (media) da farci considerare la morte come qualcosa di remoto, un’esperienza che non ci riguarda. Molti muoiono in strutture specializzate o, come siamo soliti chiamarle, “protette”. Fuori dal vissuto quotidiano dei loro stessi cari. Il pensiero positivistico ci fa pensare alla morte come sinonimo di estinzione. Con il tempo e l’evoluzione di questo modo di pensare anche l’approccio giuridico alla morte è cambiato: buona parte del mondo civile ha (se D. vuole) ormai abolito la pena capitale come espressione di inciviltà. Salvo poi riemergere in forma globale: attraverso eccidi, stragi, stermini, terrore, guerre planetarie la Morte ha complessivamente mietuto molte più vittime nell’ultimo secolo di quante non ne avessero “realizzate” malattie e patiboli per l’addietro. Noi Ebrei ragioniamo a nostra volta sulla Shoah parlando di un evento senza precedenti nel suo genere. Attribuiamo per lo più alla Shoah la responsabilità di aver soppresso la nostra fede, cosa mai accaduta in passato. Ma non ci rendiamo conto che è vero il contrario. E’ la crisi di fede occorsa precedentemente ad aver fatto della Shoah lo “spartiacque teologico” che è diventata.


Per i Maestri d’Israele la morte non è la fine: è un passaggio. In quest’ottica si può comprendere come R. Matyà considerasse la morte a sua volta come una forma di espiazione. Di una colpa di cui il peccatore avrebbe portato il segno per tutta la sua vita terrena: la Profanazione del Nome. Peccato grave? Gravissimo. Peccato non comune? Al contrario, comunissimo. E sono gli stessi Maestri del Talmud in Yomà 86a a discuterne a piè di quella pagina: “in cosa consiste il Chillùl ha-Shem?” Per Abayè è il caso di una persona nota per la sua conoscenza della Torah che però si comporta disonestamente con il prossimo: cosa si dirà di lui? “Mal ne abbia chi gli ha insegnato Torah”, ed ecco profanato il Nome. Per Maimonide (Hil. Yessodè ha-Torah 5, 10-11), basta non aver pagato prontamente un debito. Altro esempio: molti nostri giovani che giustamente sono orgogliosi del proprio ebraismo e lo manifestano apertamente nel vestire devono perciò stare più attenti di altri a cedere ad una persona anziana il posto a sedere nel metrò, anche se sono stanchi a loro volta. Altrimenti, cosa diranno i passeggeri? “I soliti Ebrei!” Ed ecco profanato il Nome!


Insomma, incorriamo nel Chillul ha-Shem tutte le volte che diamo l’impressione di venir meno ai principi della Torah. Non c’è davvero altra via d’uscita che la morte? No, risponde Rabbenu Yonah da Gerona, la via d’uscita c’è: alla profanazione si contrapponga la santificazione (Qiddush ha-Shem)! (Sha’arè Teshuvah III, 158). E come si santifica il Nome di D.? Ci sono molti modi. Commentando il famoso versetto dello Shemà’: “e amerai il S. tuo D.”, il Talmud si domanda: come si può amare il S.D.? Facendo in modo che Egli sia amato dagli altri per merito tuo, è la risposta. Ogni giorno dobbiamo comportarci in un modo che rechi onore al D. d’Israele. Se cederemo all’anziana signora il posto a sedere sull’autobus che cosa risponderà? “Grazie mille! E’ così raro al giorno d’oggi vedere dei giovani così bene educati! Che educazione hanno ricevuto gli Ebrei!”. E la nostra Torah sarà esaltata. E’ solo un esempio: avremo fatto Qiddush ha-Shem!