di Fiona Diwan
Caro lettore, cara lettrice,
il rischio di non accogliere o di non prestare orecchio a voci dissonanti o divergenti, all’interno di una stessa famiglia di appartenenza, è la perdita. Chi non viene “visto”, chi non si sente ascoltato, si sentirà rifiutato, dirà che non c’è posto per lui e così, prima o poi, finirà per radicalizzarsi, allontanarsi, perdersi. L’ascolto presuppone attenzione, desiderio di capire le ragioni dell’altro senza per forza doverle fare proprie, anche quando vengono dette in piazza, spiegate con un megafono o esibite in un contesto istituzionale. Posso ascoltarti e continuare a dissentire, a non essere d’accordo con te. Ma se ti ascolto capirò meglio la complessità dentro cui tutti siamo immersi. Non si tratta di stabilire chi ha torto o ragione, ma capire che ci sono punti di vista plurali e non per forza scelte di campo nette e definitive. Solo chi non ascolta sa già -anche inconsapevolmente-, che quello che cerca, in definitiva, è lo scontro, il conflitto.
Siamo immersi in una cultura in cui le relazioni si fanno sempre più difficili, affette da una sordità patologica, narcisistica e autoreferenziale. Devi scegliere da che parte stare, “o con me o contro di me”, non c’è via di mezzo, non ci sono colori sfumati, non sono previste posizioni più caute. Chi sta in mezzo va rifiutato, è un traditore, un collaborazionista, qualcuno che non ha capito come gira il mondo. La cancel culture che butta giù le statue di Cristoforo Colombo o di Napoleone (considerati razzisti, colonizzatori, simboli di una cultura della violenza e sopraffazione…), prevede che chi non è con te – o come te – vada cancellato. È questa mania dell’azzeramento che colpisce. È questa ricerca del consenso unanime che spiazza, un continuo pretendere di scegliere “o con me o contro di me”, con subito in tasca la ripicca pronta, la rappresaglia contro chi non si schiera o chi manifesta una certa prudenza o sfumatura.
Tutto questo sta diventando un fenomeno così diffuso da essere considerato normale. Quel fenomeno spaventoso e criminale che si chiama polarizzazione. L’aria che tira spinge verso pericolose radicalizzazioni. Così, a furia di pretendere che le cose vadano come vogliamo noi, eccoci in stato di perenne subbuglio; agitati, indignati, accigliati, insofferenti, intransigenti e convinti che sia normale esserlo. Chi tace acconsente, chi tace è complice della violenza, guai a chi è neutrale, a chi non si schiera o chi coltiva l’arte del compromesso. Bisogna schierarsi, gridare. Che si tratti di Israele e dei Palestinesi, di Netanyahu e di Gantz, di Tel Aviv o di Gerusalemme, di Trump o Biden, di razzismo o discriminazioni di genere. Bisogna stanare chi non si schiera, mettere alla gogna chi è diverger. Di qua il Bene, di là il Male.
Parlo di quello che accade per strada, nel mondo, in casa nostra. Penso a noi e ai nostri figli, alle nostre comunità ebraiche italiane alla vigilia di Rosh haShanà. È l’eterno tiro alla fune tra padri e figli, tra ideali e realtà, tra sogni e delusioni, tra successi e fallimenti. Scacciare i propri figli è un peccato imperdonabile. La dialettica delle idee, lo scambio tra le generazioni, tra le esperienze politiche di ciascuno non sono mai state, si sa, una faccenda facile. Fornire un luogo in cui l’accesso alle idee, al dibattito aperto e al libero scambio delle posizioni possa avvenire senza inibizioni è un dovere di ogni gruppo sociale e di ogni comunità di persone, ebrei e no. Non si dica che per questo ci sono i social network: non è così, lì si “abbaia”, lì si tira fuori il peggio, ci ritroviamo tutti, in men che non si dica, tifosi da curva sud, urlatori da stadio. Dopo la pandemia, tante certezze, tanti pilastri stanno vacillando, una feroce insicurezza si è insinuata nelle nostre vite. Non lasciamo che i miasmi del presente soffochino il respiro del futuro.
Anticipazione dall’Editoriale del Bet Magazine n° 9 – Settembre 2020