di Rav Giuseppe Laras
MESSAGGIO ALLE EBREE E AGLI EBREI DI ITALIA PER SHAVUOTH 5776
Sul monte Sinai avvenne dinanzi all’intero Popolo Ebraico l’evento grandioso del Mattàn Torah, del dono da parte di Dio della Torah a Israele. Da quel preciso momento, sempre rinnovantesi, l’esperienza singola di ogni ebreo e quella collettiva dell’intero Popolo hanno trovato senso e futuro nella Torah.
Libertà e comandamento si esaltano e si corrispondono appieno nel mondo della Torah, l’una è partecipe dell’altro. La Meghillath Ruth, che noi leggiamo e studiamo a Shavu’òth, ripropone tutto questo, legando destini personali ad attese universali, esaltando l’osservanza religiosa ed estendendone le prospettive e i significati. Sono pagine entusiasmanti, allusive, delicate e commoventi.
Il mondo della Torah parla il linguaggio della Halakhah e quello della Haggadah; quello della normativa, dettagliato, severo, preciso, attento, scrupoloso e geniale, e quello della riflessione esegetica, ossia dell’allusione intellettuale, dell’edificazione morale e religiosa, dell’intuizione mistica, della parabola.
La Halakhah è molto di più della casuistica rabbinica, e tuttavia la sua comprensione passa per la stretta via dello studio consumato di quest’ultima; la Haggadah e il suo mondo sono realtà molto più serie, delicate e difficili di molta cosiddetta “cultura ebraica”, spesso tanto ciarliera quanto ignorante di sé. Resta il fatto che la prima è molto più complicata ed esigente e che il suo procedere, come il suo riflettere su se stessa, rappresentano il genio proprio dell’ebraismo.
Narrativa e normativa sono i caratteri identitari e fondativi che definiscono l’ebreo e l’ebrea. Una vita ebraica che non coltivi –o che peggio, volutamente, per ideologia o per indolenza, scelga di allontanare da sé- uno dei due aspetti è destinata inevitabilmente ad avvizzire. Spesso, se questo effetto non appare conclamato nella propria personale esistenza, puntualmente si verifica in quella dei figli o dei nipoti. Purtroppo ne abbiamo continuamente molti esempi: o un’osservanza rattristita e formalistica nel primo caso o, cosa drammaticamente più grave e diffusa, nel secondo caso, un lassismo autoindulgente, che si perde dietro a fumose utopie, prive di nerbo e di concretezza e che, infine, in una generazione o due, si smarrisce nell’assimilazione e nell’abbandono.
Halakhah e Haggadah insegnano che le mitzvòth devono essere osservate, e possibilmente osservate con gioia. Parimenti la Torah andrebbe studiata con gioia. Infine, la nostra Tradizione insegna che questo studio, faticoso e tutt’altro che semplice, procura gioia.
Halakhah e Haggadah sono un unico tizzone: la prima è la brace, la seconda è la fiamma. Esse esistono insieme. Può tuttavia accadere che la combustione si smorzi: può esistere e resistere a lungo la brace senza fiamme che danzino, ardano e guizzino; non possono però le fiamme perdurare un secondo senza le braci. Lo stesso si verifica nel mondo della Torah in relazione a Halakhah e Haggadah.
L’ebraismo si preoccupa in primo luogo di disciplinare le azioni e di tradursi costantemente in prassi. Il resto è commento. Un ebraismo senza azioni non è ebraismo. Una “cultura ebraica” senza questa vita “pratica” vissuta potrà forse talora essere “cultura”, ma certamente si priva dell’aggettivo “ebraica”.
La Torah è detta Torath Emet e Torath Haìm, ossia, rispettivamente, “insegnamento di verità” e “insegnamento di vita”. Non è dunque peregrino dire la verità per la vita dell’ebraismo italiano, specie in vista del rinnovarsi delle dirigenze comunitarie dell’UCEI e specie a ridosso della Festa di Shavu’oth.
La situazione delle nostre Comunità in Italia è drammatica, e tutto ciò è reso ancora più drammatico dal rumore mediatico attorno a noi – da noi spesso persino sollevato e ricercato!- che ottunde le nostre percezioni e che ci distoglie dall’affrontare i problemi serissimi e angosciosi che nel futuro, a breve e medio termine (al massimo due o tre decenni), dovremo affrontare.
L’erosione continua e progressiva delle nostre Comunità, su cui molto si è tergiversato anche solo a rifletterci, sta andando incontro a fasi nuove, dato che i tempi della storia e degli usi e costumi dell’umanità stanno accelerando in maniera serrata. L’accelerazione degli usi e dei costumi generali, come pure l’instabilità e la continua mutevolezza culturale, sociale e politica occidentale, pone ipoteche serissime ulteriori sulle nostre piccole Comunità e sul loro destino, di per sé già provate in primo luogo da problemi interni ed endogeni.
Serve con urgenza e in primo luogo un progetto religioso -in senso ebraico-, ossia conseguentemente anche sociale e culturale, per l’ebraismo italiano: se non contribuiremo a cavalcare i processi culturali, li subiremo. Cioè, anche in relazione al mondo esterno, in una società liquida come la nostra, non è più l’epoca degli “ebrei di corte” e dei loro epigoni recenti, introdotti nei palazzi e nei salotti buoni, premurosi di accomodare le cose, di non dispiacere troppo e di ottenere garanzie a prezzi sopportabili. Non è più l’epoca, anche perché chi tra noi non è disposto a sottostare a questo logorio ha molta più facilità, rispetto anche a un passato non troppo distante da noi, di andare altrove, in primo luogo in Israele.
È auspicabile che gli eletti e i delegati al prossimo Congresso siano, per quanto possibile, da una parte o dall’altra, uomini e donne “nuove”, che intavolino una partita diversa per un futuro diverso, e che vi sia uno scarto rispetto alle passate gestioni. Serve che queste persone meditino a lungo sull’infinita, gravosa responsabilità che avranno in mano per il futuro dell’ebraismo italiano. È auspicabile che queste persone, fatta salva l’onestà personale dei singoli, prima di pensare di offrire qualcosa all’ebraismo italiano, avvertano un ragionevole senso di inadeguatezza per la situazione presente e le ipoteche future, sì che “tremino loro i polsi”. Servono cioè persone che misurino e calibrino loro stesse e che sappiano resistere alla tentazione, tanto più devastante quanto più inconscia, di “usare” le nostre istituzioni e la loro appartenenza al ns. Popolo per scopi estranei al servizio, spesso difficile e sofferto, alle ns. Comunità.
Nell’eterna diatriba post-emancipazione, tra laici e religiosi, tra assimilazionisti à la page e religiosi cupi e risentiti, ritornano, proiettate sui rabbini, due parole, usate come slogan e come pietre: “apertura” e “chiusura”. Vengono così individuati i buoni e i cattivi, i colti e gli incolti, gli intelligenti e i fanatici, alimentando inevitabilmente due ideologie mortifere, entrambe, all’occorrenza, in attacco o in difensiva. Non si può più perdere tempo in queste piccinerie: semplicemente, non abbiamo più molto tempo e, sia le nostre Comunità sia il Rabbinato italiano, in larga misura si sono ampiamente dissolti.
Vi sono pochi rabbini italiani: molti di noi sono vecchi, pochissimi e insufficienti sono i giovani. Molte pecche possono essere imputate ai rabbini. Molti di noi non studiano da tempo e si vede, e mi riferisco a studi di Halakhah in primo luogo, ovviamente; alcuni hanno evidenti difficoltà e disagi relazionali; molti, totalmente disamorati a causa di decenni di permanenza in Comunità che li hanno concepiti e ridotti a meno “funzionari religiosi”, pensano ormai al loro particulare. Altri hanno deciso di fare i “rabbini intellettuali”, senza pagare dazio nella scarnificante vita religiosa a contatto con i problemi quotidiani dei singoli e della Comunità. Infine, alcuni passano per “buoni” perché ben disposti a convertire non ebrei all’ebraismo. In generale, vi è amarezza, stanchezza, solitudine e incomprensione. Le disfunzioni delle vite rabbiniche tuttavia corrispondono e sono conseguenti alle disfunzioni delle vite comunitarie; una cosa peggiora ed esaspera l’altra. Va ricordato, tuttavia, che il rabbino è un uomo, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, e non una collettività. E che spesso il rabbino, anche quello migliore ipotizzabile umanamente e religiosamente, è solo. E l’ebraismo, al contempo, è una “religione sociale”; ossia presuppone ed esiste unicamente in una “società ebraica”, che voglia esser tale e che in tal modo voglia vivere.
Mi rendo perfettamente conto che la maggior parte di noi, sia laici sia religiosi, al contempo, sinceramente, crede di operare -ed opera- con le migliori intenzioni.
Andrebbe ricordato ai fautori ideologici dell’aperturismo senza frontiere –e andrebbero ben messi in guardia i nostri fratelli da queste sirene- che negli ultimi cinquant’anni -sino a ora- i vari Tribunali Rabbinici italiani hanno complessivamente convertito all’Ebraismo alcune migliaia di persone, in seno a una popolazione ebraica oscillante tra poche decine di migliaia di unità, con un rapporto tra ebrei convertiti (per lo più da matrimoni misti) e ebrei di nascita inedito. E tutto questo non è servito a fermare, o almeno a sufficientemente contrastare, il processo assimilatorio in seno alle famiglie ebraiche italiane. A chi obietta che senza le conversioni dei discendenti di matrimoni misti saremmo ancora di meno, obietto che ai Tribunali Rabbinici, dal migliore al peggiore, dal più paludato e istituzionale a quello più “garibaldino”, quella che unicamente deve importare –e che pone il discrimine essenziale e imprescindibile- è la qualità religiosa della conversione, tutti gli altri criteri sono fallaci, inadeguati, estranei e disorientanti. Obietto, inoltre, che chi ha davvero “salvato” i numeri dell’ebraismo italiano, altrimenti ancor più spazzato via dalla Storia recente, è stato in primo luogo l’afflusso di migliaia di ebrei dai Paesi islamici negli scorsi decenni: Libia, Siria, Libano, Egitto e Iran, ebrei che spesso oggi abbandonano l’Italia alla volta di nuovi Paesi e di nuove storie personali e collettive. E anche su quest’ultimo punto dovremmo interrogarci e confrontarci. Infine, sulla qualità religiosa delle migliaia di conversioni fatte, sia i rabbini sia tutti i figli e le figlie di Israele in Italia dovrebbero molto interrogarsi, dato che, con il passare del tempo, la partecipazione alla vita comunitaria assieme all’osservanza delle mitzvòth da parte di molti dei figli e dei nipoti delle coppie miste ammessi in seno a Israele è purtroppo minima.
Per converso è altrettanto vero che spesso in Comunità assimilate e debilitate sono proprio alcuni gherìm a garantire, promuovere e tenere in essere queste Kehillòth, religiosamente, socialmente e culturalmente. Anche questo testimonia, nel tempo, fattivamente, la qualità religiosa – in questo caso positiva- di una conversione.
Bisogna, per amore di verità e per amore dei nostri fratelli e sorelle, dire che le conversioni, specie nelle Piccole e Medie Comunità Italiane, indipendentemente dai Tribunali Rabbinici e dai rabbini, saranno sempre più difficilmente praticabili, perché si è dissolto il mondo ebraico in cui accogliere l’eventuale convertito, oppure tale mondo, ai minimi termini, risulta profondamente debilitato. Per la Halakhah, vi è Comunità là dove vi è un miniàn, ossia dove è possibile avere regolarmente funzioni religiose, celebrare degnamente Shabbat e le Feste, osservare appieno la kasheruth, studiare Torah. Quali tra le nostre Comunità garantiscono e ancor più sono in grado di garantire nel futuro tutto questo seriamente, in maniera vitale e creativa? Cosa facciamo noi tutti? Che politiche abbiamo in mente? Cosa si può ancora fare e cosa ormai non si può più fare? Con quali criteri, infine, distinguiamo tra ciò che è e sarà essenziale, su cui investire, e ciò che invece è contingente e addizionale, nel concentrare le nostre forze residue?
Parlando di Torah e parlando, quindi, di vita, è domanda religiosa essenziale e vitale quella che riguarda la nascita di bambini ebrei in Italia, con la creazione di coppie ebraiche.
Il Santo e Benedetto ci scuota, ci illumini e ci benedica con il dono della Sua Torah, capace di aiutarci a trasformare il deserto in terra fertile, le nostre sterilità e pochezze in estrose e carsiche forze positive, situazioni difficili in zemàn simchatenu, tempi di gioia!
Rav Prof. G. Laras, Av Beth Din