Il principio di laicità

Opinioni

Il principio di laicità, come istanza di indipendenza dello Stato e della società civile dalle autorità e dai dogmatismi delle religioni, si è affermato nella storia moderna dell’Occidente, in connessione con il liberalismo e con la democrazia pluralistica.
Il principio, seppure non esplicitamente menzionato, ispira articoli fondamentali della Costituzione repubblicana (gli articoli 3, 7, 8,19 e 20) ed è stato esplicitamente elevato a valore supremo dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 203 dell’aprile 1989, alla quale hanno fatto seguito molte altre, tra cui, ultima, la sentenza n. 168 dell’aprile 2005.
Il principio di laicità ispira, inoltre, la normativa comunitaria e, soprattutto, il recente il Trattato Costituzionale Europeo.
L’Unione europea offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il principio di laicità è tra i presidi ideali e giuridici nella concezione di un tale spazio, presupponendo la democrazia politica e ad essa associandosi. Il principio rispetta e tutela la stessa vita religiosa, sia dalle imposizioni di una sola gerarchia religiosa, sia dall’ipertrofia dell’autorità statale e di regimi dittatoriali che schiacciano le libertà. Non basta infatti distinguersi dall’integralismo religioso per essere davvero laici, se non si condivide e non si difende la libertà come mezzo e come fine dell’attività politica, sociale e culturale.
La vera laicità genera un clima storico, culturale e giuridico favorevole alla generale convivenza delle culture e delle religioni, con tutte le possibili competizioni e discordanze, ma entro le regole della legalità e i costumi della civiltà.
Quando questo clima cresce, le stesse religioni, rimodellate sul limite dei loro poteri e sull’attitudine al confronto dialogico, possono giovare, nel loro stesso interesse o per il loro incremento di qualità, alla tenuta ed al progresso della convivenza. Del resto, già alle sue origini, la laicità si è giovata di apporti provenienti da minoranze religiose e da elementi avanzati della religione maggioritaria.
La convivenza si organizza in un sistema generale di cittadinanza democratica, che abbraccia e garantisce sia gli organismi culturali, politici e confessionali, sia le singole persone come membri di collettività e nelle loro posizioni individuali, ricche di sfumature, di varianti, di mescolate composizioni.
In una società aperta come quella in cui viviamo il fenomeno dell’immigrazione rende più complessa la convivenza per il formarsi di diverse presenze etniche, che si intrecciano con la varietà del paesaggio culturale, religioso e sociale. La cosa è tanto più avvertita in un paese come l’Italia, caratterizzato, fino a poco fa, da una fondamentale omogeneità nazionale, etnica e religiosa, con l’eccezione di esigue minoranze.
Le minoranze stanno crescendo per numero e per peso complessivo. Il criterio di fondo in un sistema democratico è di contemperare la loro integrazione nel tessuto nazionale e sociale con il rispetto delle loro identità specifiche.
L’integrazione avviene gradualmente, direi per ondate successive, in rapporto ai tempi della presenza nel paese, alle dinamiche sociali e culturali di gruppi e di singole persone.
Può pervenire, per spontanei processi, all’assimilazione di elementi delle minoranze nel tessuto maggioritario, ma non la deve postulare come traguardo. Se assimilazione vuol dire acquisire somiglianze, la convivenza oggettivamente tende a stimolarla. In questo senso l’assimilazione può essere reciproca, con influenza sulla stessa maggioranza, che assorbe aspetti e caratteristiche dalle minoranze e di queste tra loro.
Questa dinamica agisce soprattutto al livello individuale, dove in maggiore o minor misura si riesce a conservare l’identità di gruppo. Alle singole comunità, ai loro esponenti, ai loro membri più organici compete la conservazione e la cura della collettiva identità culturale in tensione con le tendenze assimilatrici e le spinte centrifughe. Parlo per diretta esperienza, appartenendo ad una minoranza, quella ebraica, che fin dall’emancipazione, da oltre un secolo e mezzo, in Italia si cimenta con questo tipo di problema, comune ad altre culture.
Il sistema complessivo di una democrazia non deve premere per l’assimilazione (che può portare alla fine della multiculturalità) e non deve confinare le minoranze. Esigendo il rispetto delle regole di libertà e legalità da tutte le sue componenti, deve, a sua volta, rispettare le loro interne dinamiche, sia al livello collettivo di gruppo, sia nei confronti degli individui.
Ciò può valere anche verso gli integralismi, che per essere compresi e, quando necessario, combattuti, devono essere considerati e interpretati anche per i loro aspetti di rilevanza sociale ed internazionale, oltre che in relazione al contesto giuridico, politico, culturale in cui si muovono.
In un contesto democratico e pluralistico, infatti, le manifestazioni di integralismo possono essere contenute con le leggi e con un adeguato sistema di poteri e di contrappesi.
Anche un modo cosiddetto ‘fideistico’ di leggere testi sacri ed un modo cosiddetto ‘fondamentalista’ di professare una religione, può essere inserito in una cornice di diritto pubblico che garantisca tutti gli altri modi di vivere e che contenga leggi e strumenti atti a perseguire e sanzionare comportamenti violenti e trame eversive.
La scelta compiuta nella nostra Costituzione, agli articoli 7 e 8, privilegia l’accordo concordatario tra lo Stato e il cattolicesimo e prevede la stipula di intese con le altre religioni diverse dalla cattolica. E’ un approccio che, nonostante alcune imperfezioni, mi sembra abbia dato fin qui buoni frutti.
L’Intesa tra l’Unione delle Comunità ebraiche e lo Stato, di cui celebreremo il ventennale all’inizio del 2007, è una buona intesa, che sta funzionando bene e si fonda sul rispetto delle regole religiose ebraiche da parte dello Stato e di un (ovvio) riconoscimento di quest’ultimo da parte dell’Ebraismo.
Si tratta di un’Intesa che ha permesso di regolare, tra l’altro, in primo luogo il diritto al riposo sabbatico ed a professare liberamente il culto, ma anche gli effetti civili dei matrimoni religiosi, l’educazione scolastica, l’assistenza religiosa negli ospedali e nelle carceri.
Anche alla luce di questa ventennale e positiva esperienza, l’ebraismo italiano gode di un particolare ascolto e di una particolare attenzione da parte del mondo politico ed istituzionale.
Il quadro delle Intese è peraltro in perenne evoluzione, visto anche il mutare del contesto religioso italiano, anche in forza dei fenomeni immigratori cui prima accennavo.
Ma soprattutto deve essere rivisitata la vecchia legge del 1929 sui culti ammessi, che deve ora essere ispirata ai principi di libertà religiosa e di laicità dello Stato.
Mi auguro che la Commissione Affari costituzionali della Camera che ha avviato da poco, anche in questa legislatura, la discussione sull’argomento, possa trovare una soluzione equilibrata e possa finalmente aggiornare un quadro normativo ormai vetusto, e nato in ben altro contesto.
Di una generale legge sulla libertà religiosa, che inquadri le intese ed agisca al fianco di esse a sostegno dei gruppi che ne sono privi, il Paese ha bisogno per una crescita della cultura della convivenza, fermo restando il ragionevole e legittimo rigore nel valutare l’affidabilità e la rappresentatività delle associazioni religiose che chiedono il riconoscimento con garanzie ed agevolazioni per i culti.
La cultura della convivenza presenta una quantità di offerte, di sollecitazioni, di percorsi. Un limite dovrebbe tuttavia essere posto, e mi rendo conto che non è facile individuarlo, verso quelle posizioni di pensiero e quei comportamenti che negano o possono turbare la convivenza stessa, scontrandosi con la cultura che ne è alla base.
Ricorre qui un problema che si è affacciato da sempre ai moderni fautori della libertà, cioè fin dove si può lasciare la libertà ai nemici della medesima.
La soluzione non è facile perché della libertà, come dei concetti di giustizia, di moralità, di verità e di bene, si hanno concezioni diverse. Ma vi sono pur sempre criteri di fondo che consentono di discernere le offese più stridenti ai presupposti fondanti della convivenza civile. Dall’abbondanza dei diritti discendono sanzioni per le violazioni dei medesimi. Ad esempio, in Italia è in vigore da trent’anni la legge (3 ottobre 1975, n. 654) che ratifica la Convenzione Internazionale di New York sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e da più di dieci anni la cosiddetta legge Mancino, che commina pene anche a chi diffonde idee razziste e specificamente antisemite.
Se ci fermassimo ai titoli dei giornali talora potremmo ricavarne un’immagine dell’Italia non sempre disponibile all’ascolto delle istanze delle minoranze religiose e a volte arroccata in difesa di antichi privilegi. Ma l’esperienza che ogni giorno incontra la piccola, antica e ben integrata presenza ebraica è di segno diverso: l’Italia è un paese pluralista, interculturale, aperto.
Un fenomeno interessante nella trasformazione delle culture è il ruolo delle donne, che da fattore di inerzia conservatrice, in un ruolo tradizionale al margine della costante preponderanza maschile, si sono venute, parzialmente ma significativamente, attivando in senso riformatore e il cui status si è fatto cartina di tornasole, assieme a quello delle minoranze, delle dinamiche sociali, culturali, politiche e religiose.
L’intrecciata convivenza delle culture accresce, inoltre, i collegamenti internazionali in un mondo globalizzato, per via dei referenti che ciascuna mantiene verso il paese o i paesi che ne costituiscono il terreno originario. Vi è oggi infatti, in Italia, come in molti paesi di immigrazione, una costellazione di culture e religioni, che continuano in genere ad avere il loro centro nazionale, culturale e confessionale su un dato territorio e, nel contempo, una irradiazione diasporica a diramazioni molteplici. Il popolo ebraico ha fatto, anche in questo fenomeno, da battistrada, con la sua quasi congenita diaspora e con il ritorno sionistico nel luogo d’origine.
Ogni diaspora, se ben vissuta, porta a composizioni di identità per via di sintesi – nei gruppi e nei singoli – tra elementi della cultura originaria ed elementi della cultura del paese “ospitante” nel quale, a sua volta, si producono interessi e adesioni verso le “culture entranti”. Tali interessi e adesioni nel tessuto dell’organismo ospitante agiscono doppiamente, da una parte contribuendo ad inserire il paese in circuiti internazionali e, dall’altra, contribuendo a radicare nel paese e ad adeguare al paese le medesime culture entranti.

Intervento tenuto al convegno Il valore condiviso della laicità dello Stato – Roma Camera dei Deputati