Suprematisti in America

Il razzismo come strumento di potere e di sopraffazione. Se le gerarchie di ruoli si irrigidiscono, impedendo l’esercizio dei diritti, le società possono esplodere

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] 

Non è vero che i razzismi, e tra essi anche quella specifica forma di pregiudizio storicamente consolidato che è l’antisemitismo, si alimentino solo dei cliché, dei luoghi comuni, degli stereotipi socialmente diffusi, in una parola dell’«ignoranza».

Se così fosse, si tratterebbe allora di un divario da colmare con la formazione e l’educazione, superato il quale le cose tornerebbero al “loro posto”. Ma in realtà, a filo di metafora, le cose stanno già nella loro giusta collocazione. Poiché, se si capovolge l’approccio abituale al razzismo – per l’appunto invece tradizionalmente inteso come un difetto di conoscenza, e si interpreta invece come una forma specifica, ancorché delirante, di falsa coscienza – allora le cose cambiano di significato. Nel senso che la sua continuità nel tempo rivela la sua natura di strumento di dominio materiale, ovunque venga praticato e qualunque sia la specificità storica del rapporto tra dominanti e dominati.

La costruzione di un’ideologia razzista, di una visione delle relazioni sociali basata sul pregiudizio è sempre e comunque funzionale a tutelare interessi di un qualche gruppo, quello composto – per l’appunto – da chi è in posizione di privilegio ed intende puntellare e preservare la condizione di supremazia che si è garantita. Al netto delle letture ingenue del razzismo medesimo, quest’ultimo va invece inteso come parte di un modo attraverso il quale istituzioni e poteri pubblici, ma anche processi economici e sociali, mantengono e alimentano quelle diseguaglianze tra esseri umani altrimenti ingiustificabili.

In questo senso si tratta anche di ideologia, ossia di una falsa coscienza che si convalida da sé, ovvero si giustifica agli occhi di chi vi aderisce per il fatto stesso di esistere nel linguaggio comune, come se fosse un fatto ovvio, “naturale”, senza necessità di essere dimostrato in alcun modo. Non a caso il pensiero razzista è praticato proprio da quelle persone che se ne dichiarano esenti (tipico l’esordio di certe frasi: «non sono razzista ma…»), ritenendo non di esprimere una posizione faziosa, discriminante e intollerante ma una semplice e legittima visione delle cose del mondo.

Il razzismo, che spesso si accompagna a formulazioni più o meno dotte sulla maggiore o minore “umanità” dei gruppi sociali («non siamo noi che li escludiamo, sono loro ad essere inferiori»), considerati gli uni contro gli altri, serve quindi ad occultare i conflitti di interessi materiali che ruotano intorno alle molte ingiustizie della vita quotidiana. Soprattutto quando esse non sono per nulla il risultato del caso ma di asimmetrie di capacità e, soprattutto, di possibilità, nel presente come, in modo particolare, nel futuro. Come tali, destinate a segnare il destino di intere collettività. Quindi, il suprematismo espresso da ceti e classi sociali su base “razziale”, è espressione non di un errore da correggere, di un difetto da emendare, bensì del modo in cui una data società costruisce gerarchie di ruoli, di posizioni, soprattutto di ricchezze.

La risposta a questo stato di cose – destinato quasi sempre ad esplodere quando le troppe differenze si fanno insopportabili, quindi il tessuto della coesione sociale si smaglia – non sta nell’inesistente egualitarismo, anch’esso un’insopportabile finzione, ma nel tentativo di garantire l’accesso a diritti reali e a opportunità effettive. Il ruolo degli Stati, nelle società contemporanee, attraverso la leva dei diritti collettivi, dovrebbe essere quello non di livellare gli individui tra di loro ma di garantirgli la concreta possibilità di integrarsi nelle comunità nazionali. Se ciò non succede, e non pochi fatti recenti si sono incaricati di dimostrarcelo, allora il rischio di fratture non ricomponibili sta immediatamente dietro l’angolo.