di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Nulla di umano è eterno, quand’anche invece ambisca, sia pure illusoriamente, a pensarsi in tali termini. L’umano – infatti – sussiste solo ed esclusivamente perché è temporaneo. Non sarà quindi l’evocare, dall’una parte come dalle tante altre, gli spettri del passato, a fare sì che ci si possa dare, tutti insieme, una ragione sensata rispetto al disagio dei tempi che stiamo vivendo.
Nel merito, non saranno gli anacronistici richiami al “fascismo” o ad una “sinistra” trinariciuta (i “rossi”) – in sé, invece, due facce di una stessa medaglia, quella del gioco delle parti – ad aiutare gli smarriti così come gli inconsolabili del nostro tempo. Noi siamo peraltro, assai spesso, tra di essi. Tuttavia, per parte nostra, senza arrenderci, cerchiamo di trovare dei segnavia che non risultino illusori. Beninteso, è del tutto accettabile che si interpreti ciò che sta nel mentre avvenendo con le categorie di un passato trascorso. Quand’anche esse risultino da subito, per più ragioni, tanto inadeguate quanto incongrue.
Capire il presente, infatti, richiede sempre di comprenderlo con ciò che si ha ad immediata disposizione, ovvero non una cassetta degli attrezzi inedita bensì gli strumenti del tempo che ci appartiene, che in sé conta molti elementi di quello appena trascorso. A tale riguardo, lo storico sa soprattutto una cosa, ossia che ogni epoca si è vissuta come l’ultima, nel momento in cui doveva invece cedere il passo a nuove leve, a giovani generazioni, a inedite condotte, quindi a inconsueti pensieri e così via. Dopo di essa, ci si diceva infatti, sarebbe arrivato il diluvio universale.
Nella lunga esistenza dell’umanità le cose, tuttavia, non hanno mai funzionato in tali termini. In altre parole, assai spicciole, non è vero che quel che sopravviene sia necessariamente peggiore di quanto ci si lascia alle spalle. Semmai, ci risulta più oscuro poiché contiene in sé quanto ci sopravanzerà. Rendendoci inutili. È molto difficile riconoscere ed accettare tutto ciò ma, in fondo, si tratta di una consapevolezza tanto problematica quanto necessaria: ognuno di noi non è indispensabile – né mai lo sarà, in franchezza – rispetto a coloro che gli stanno subentrando nel mentre. Discernere la propria temporalità (ovvero, l’essere il soggetto di un’epoca e non di altre, ovvero quelle a venire) non è mai un esercizio di relativismo etico bensì la capacità di collocarsi in una sequenza che non è solo cronologica (il trascorrere del tempo, nella sua materiale inesorabilità) ma anche e soprattutto storica (il succedersi di modi di pensarsi, di criteri di esistenza, di modalità di relazioni, scambi e condivisioni). Se si accettano tali presupposti, ne consegue che qualsiasi discorso su questioni delicatissime – tali poiché piene di implicazioni personali, famigliari così come collettive – che rimandi a termini al pari di “identità”, “tradizione”, “trasmissione” e quant’altro, debba allora essere sempre e comunque contestualizzato. Ad una tale consapevolezza – la quale rimanda alla necessità di tenere in considerazione che non esiste altro Eterno che non sia quello divino (la quale, vale la pena di ripeterlo, è esattamente la sfera contrapposta all’umano, quest’ultima tale in quanto transitoria) – risponde invece, in maniera dichiaratamente conflittuale, la protervia dei fondamentalismi. Sono tali, a conti fatti, quei movimenti politici (non importa di quale colore, parte o natura) che si richiamano alla necessità di sostituirsi al ruolo di una qualsivoglia idea di divinità, per incarnarne invece le vesti e attribuirsi le medesime funzioni. Nel nome dell’insindacabilità del proprio operato, che per l’appunto avverrebbe nel nome e per conto del divino medesimo, in una sorta di delega, destinata ad esercitare immediate ricadute sulla società. Ad oggi, nello scenario internazionale, la questione rinvia soprattutto al mondo islamico. In un passato recente, a quello cristiano.
Tuttavia, non è mai un problema di singole religioni o gruppi. Semmai, è un tema trasversale, poiché dietro di esso, alle sue parole tanto pesanti quanto vincolanti, al suo concreto operato, si celano i materiali rapporti di potere, gli inconfessabili interessi di gruppo, il fingere che i calcoli di interesse dei più forti corrispondano agli orizzonti dei molti, quei troppi che sono deboli.
Non a caso, allora, il fondamentalismo si ammanta, pressoché da sempre, del riferimento a codici e significati che trascenderebbero la medesima vita umana, quindi i suoi insopprimibili diritti (e con ciò la sua essenza più profonda, che mai necessita di giustificazioni di sorta). È “fondamentale”, secondo questo approccio, non quanto rimanda alle persone, nella loro individualità; semmai, è indispensabile la coerenza di un’idea, che si sovrappone e si sostituisce ad esse. Anche a costo di non contare i molti morti che si lascia alle spalle. Non meno a caso, proprio per una tale ragione, qualsivoglia fondamentalismo, integralismo o cos’altro ha nel suo cuore nero, ferocemente pulsante, il rigetto sia del pluralismo (convivere tra diversi, nei medesimi luoghi così come – allo stesso tempo – condividendo medesimi diritti) sia della storia (ovvero la consapevolezza che nel tempo ci si trasforma, proprio a partire da sé stessi), rigetta qualsivoglia riscontro dei fatti, semmai sostituendolo con i propri lucidi deliri. Spesso molto attraenti. Poiché le collettività in difficoltà non cercano riscontri logici bensì lenitivi tanto illusori quanto rassicuranti. Sono tutte queste parole, appena redatte, difficili da comprendere e, ancor più, da condividere? Forse.
Tuttavia, è bene sapere una cosa, ossia che il senso della vita di ognuno non riposa nella chimerica semplicità di una mera presa di posizione, come invece altrimenti pensiamo che sia, bensì nella necessità di capire la complessità di cui, ognuno di noi, è depositario. In sé stesso, anche suo malgrado. Non ci sono misteri da svelare che non siano quelli che intercorrono tra la babele dell’umano e l’ineffabilità di ciò che si rivela come eterno. La prima è la cifra di ciò che chiamiamo con il nome di “tempo”, nel suo inesorabile trascorrere. La seconda, invece, rimanda al senso profondo di quello che, per l’umanità, è la “storia”. Tale poiché la trascende.