di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Si è ripetutamente detto e scritto che chi “non ricorda” sia destinato a rivivere quel passato che ha rimosso, poiché rifiutato o, più semplicemente, ignorato. L’ignoranza, peraltro, non è un vuoto da colmare bensì una specifica strategia di comportamento nella vita di ogni giorno: chi non sa, spesso non vuole sapere. Non intende quindi ragione al riguardo, preferendo, e di molto, proseguire sulla sua strada. Ciò facendo, vuole evitare l’onere delle verifiche e dei riscontri. In quanto essi metterebbero in discussione i suoi intimi convincimenti, che coincidono con la sua identità personale.
A questo atteggiamento, oggi assai diffuso, si accompagna la condotta dei non pochi che rivelano di non riuscire a capire. Tanto più dal momento che sentenziano sul tutto. Vivere in una democrazia, qual è tra le altre la nostra stessa Italia, implica il fatto che se le opinioni (e soprattutto i voti), non si pesano ma – piuttosto – vengano contate, non per questo sussista un’immediata equivalenza tra di esse. In altre parole, la libertà di opinione, così come di espressione della medesima, non è mai il suggello della parità tra le sue diverse, tante, molteplici, confuse, convulse manifestazioni. Si può prendere un megafono per dire molte cose, alcune buone mentre altre, spesso, assai mediocri. Se non pessime. La varietà democratica è anche questa cosa, posto che ad ingarbugliare le cose è soprattutto il fatto che non c’è mai un decisore assoluto, tale poiché dica una volta per sempre a tutti, in maniera tanto insindacabile quanto incontrovertibile, cosa sia “giusto” e quanto, invece, vada scartato a priori.
Proprio in questa sorta di apparente nebbia delle idee – tuttavia – riposa, in fondo, il vero pluralismo democratico. Il quale in sé non costituisce la fragile e bizzarra equivalenza di affermazioni e negazioni, di visioni tra di loro alternative del mondo e della vita; semmai la ricerca, nel tempo, di una ragionevolezza che trovi un filo logico rispetto alla complessità dell’esistenza di ognuno di noi. Non di meno, si è sottolineato in più occasioni che la risposta ai rischi, sempre incombenti, di trasformare il pluralismo in una totale anarchia del giudizio, consista nello sforzo di fare capire cosa è successo e quali siano, nel caso dei disastri umani, i percorsi da evitare, così come le condotte da assumere per non cadere nelle trappole che portano alle tragedie collettive. Senz’altro una cittadinanza consapevole richiede anche un tale stato di cose. C’è quindi di che convenirne. Non esiste tempo presente, e ancora meno disposizione verso il futuro, se ciò che è stato (fatto) venga dimenticato. D’altro canto, ogni grande crimine per prodursi reclama l’incoscienza dei molti. Combattere quest’ultima vuole infatti dire adoperarsi contro la propensione umana alla distruzione.
Ma tutto ciò è solo un punto di partenza rispetto al buon uso del passato. Una pedante pedagogia pubblica che traduca la conoscenza in un obbligo, un sorta di “dovere della memoria”, anche se ispirata alle migliori intenzioni, può favorire l’eterogenesi dei risultati. In questo caso alimentando rifiuto o comunque scetticismo. Infatti, sarebbe più una prescrizione che non una cognizione. Un obbligo, in altre parole. Dal quale i più vorrebbero liberarsi quanto prima. La memoria è invece un diritto e, come tale, non solo una condizione in costante evoluzione e mutamento ma anche la consapevolezza che essa vada conquistata e acquisita nel tempo. All’idea stessa di diritto, infatti, si lega quella di impegno, ossia di lotta per la sua affermazione e condivisione. Non è quindi una dottrina e neanche un semplice ricalco di quanto avvenne nel passato bensì una relazione al presente, dove fondamentale è la piena cognizione per cui ognuno di noi esiste sempre e solo in rapporto agli altri. Nel senso, in quest’ultimo caso, che l’esistenza individuale è inevitabilmente vincolata a quella dei nostri contemporanei. Ciò dicendo, non ci troviamo dinanzi ad elementi di una filosofia spicciola e neanche a banali prescrizioni di condotta. Si tratta, semmai, di riscontri che dovrebbero risultare ovvi, quindi acquisiti quando – invece – non lo sono in alcun modo. Si è detto, non di meno, che il passato si può ripetere quando non se ne comprenda il senso. Anche questa affermazione è fondata e, quindi, sottoscrivibile.
Ma per capire il significato di quel che è stato bisogna usare un codice di trasmissione e di interpretazione condiviso. Quando questo elemento viene a mancare o a difettare, allora il rischio che il passato assomigli di più ad una scatola vuota che non ad un percorso comune, al pari di una teca nella quale ognuno mette, di volta in volta, ciò che preferisce, disinteressandosi dell’obbligo di coerenza, è immediatamente dietro l’angolo. Oggi ci troviamo dinanzi non solo ad una disinvolta riscrittura della storia, tale poiché piegata alle esigenze di certe letture personaliste, identitarie e, quindi, nettamente faziose, ma anche alla convinzione che così facendo ci si comporti in omaggio ad una non meglio precisata “libertà”. Da tutti peraltro rivendicata. Il pessimo uso dell’idea del passato, infatti, non ha molto a che fare con l’indifferenza verso i trascorsi. Semmai, è una licenza di rilettura che, simulando la novità, il clamore, il rimando al sensazionalismo, disintegra invece il significato condiviso e l’accordo su come interpretare i segni e le tracce che ci sono pervenute da chi ci ha preceduti. La non comprensione, allora, non corrisponde per nulla ad un rifiuto o ad una rimozione. Non è il vuoto dell’ignoranza ma il pieno della tracotanza. Poiché chi non comprende ha in genere la presunzione a ritenersi come colui che già sa, non necessitandogli nessuna verifica.
La storia diventa allora un bricolage, dove si tolgono e si mettono, a proprio piacere, tasselli di un castello immaginario. La presunzione, in questo caso, cancella non solo la complessità di quello che è stato ma anche le difficoltà del presente, contrapponendo all’una e alle altre i semplicismi intollerabili delle banalizzazioni e degli schematismi. Una falsa rassicurazione è, quasi sempre, il timbro prevalente nella melodia dei pifferai magici di ogni tempo e di qualsiasi dove. La meta è però una sola, e coincide con l’abisso della ragione.