di Giorgio Gomel
Nell’arco di pochi giorni in ottobre si sono susseguiti due eventi di grande rilievo per gli ebrei della Diaspora impegnati nel sostenere una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese fondata sul principio di “due stati per due popoli”: la conferenza annuale di JStreet a Washington e il colloquio “Israele-Palestina al 2020” organizzato da Jcall a Parigi.
Due incontri diversi che riflettono le differenze fra le due associazioni e il contesto in cui esse operano, ma accomunati nell’affermare l’importanza dei negoziati diretti in corso fra le parti e l’urgenza di una composizione del conflitto con la nascita di uno stato palestinese in rapporti di buon vicinato con Israele e una piena, legittima, pacifica esistenza per quest’ultimo come stato ebraico e democratico.
JStreet è l’America con la sua forza e la sua vitalità: un’associazione ebraica nata cinque anni fa, in antitesi agli organismi dell’ebraismo ufficiale, più conservatori e pedissequi nel sostegno acritico ai governi di Israele. Per lungo tempo emarginata e vilipesa dagli uni e dagli altri come “nemica” di Israele, JStreet ha saputo consolidarsi organizzativamente, soprattutto nella raccolta di fondi, nell’opera di lobbying al Congresso, sui media e nelle Università. La sua legittimazione come movimento che è nello stesso tempo in favore di Israele – contro i movimenti che nella sinistra americana, nelle chiese e nelle università, sostengono il boicottaggio di Israele – e della pace – contro la destra, ebraica e cristiana, oltranzista – è apparsa piena, anche travolgente nell’entusiasmo di quasi 3000 partecipanti, di cui ben 900 studenti; negli interventi pubblici del Vice presidente degli Stati Uniti Joe Biden, del mediatore del negoziato Martin Indyk, di Tzipi Livni, che ha affermato che Israele sarà una democrazia ebraica soltanto se vi sarà uno stato di Palestina sovrano e degno di questo nome, e nel confronto fra ben cinque deputati della Knesset. Tra questi Tzachi Hanegbi, esponente del Likud, per la prima volta presente a un evento di JStreet, ha riconosciuto che la legittimità della stessa deriva dal “suo amore e impegno per il futuro di Israele”, pur ammettendo di essere stato fortemente criticato da quadri ed elettori del partito per la sua decisione di partecipare,.
JCall è l’Europa, un’associazione più piccola, più recente (solo 3 anni), più “intellettuale”, minoritaria fra gli ebrei europei di cui però esprime il senso di smarrimento e di inquietudine rispetto a un Israele che ci appare isolato, paralizzato in un vicolo cieco, con il protrarsi dell’occupazione, l’annessione di fatto di territori palestinesi via via più corposi, l’incombere di un futuro stato “binazionale”. JCall ha solidi rapporti con i governi di alcuni paesi (Francia, Belgio, Italia) ed esprime una voce molto vicina a quella dei Parlamenti di quei paesi, dove la soluzione “a due stati” trova forti consensi. Il colloquio parigino era di taglio più scientifico, rivolto a immaginare un futuro non troppo lontano (il 2020) e incentrato su due temi salienti: l’assetto dei due stati in materia di confini, territori, sicurezza e le possibilità e modalità di cooperazione economica. Si è trattato del primo di una serie di seminari che si svolgeranno nei prossimi mesi in altre città d’Europa, inclusa l’Italia, d’intesa con istituti di ricerca, sutemi come l’acqua (Angers, Francia, 30 novembre), la demografia, l’energia, i rapporti fra Europa e Israele, ecc.
Condenso alcuni degli interventi principali della conferenza di JStreet (programma completo, sintesi registrate e altri materiali si trovano in www.jstreet.org).
Martin Indyk, pur prudente circa le trattative segrete fra israeliani e palestinesi in corso, ha dipinto un quadro cautamente positivo nel confronto con passati tentativi abortiti: c’è un comune interesse di Israele e degli stati arabi nel combattere il radicalismo islamista; l’offerta della Lega Araba con l’appoggio dei paesi islamici di normali rapporti diplomatici e di una pace piena con Israele, che contempli anche modifiche territoriali rispetto ai confini pre-1967 e una soluzione negoziata fra le parti circa il problema dei rifugiati palestinesi, è un sostegno importante e una garanzia politica per i palestinesi; Netanyahu e Abu Mazen sono più forti internamente rispetto ai loro predecessori; il negoziato mira questa volta, diversamente da Oslo o Camp David-Taba, esplicitamente a un assetto definitivo, non a intese intermedie e transitorie.
Shelly Yechimovich, segretario laburista e leader oggi dell’opposizione, ha detto che il negoziato non potrà procedere seriamente da parte israeliana per l’ostruzionismo del partito di estrema destra guidato da Naftali Bennett (Casa Ebraica (HaBayit HaYehudi, che ha 12 seggi alla Knesset) e l’estremismo ormai imperante in una parte preminente del Likud. Ma se l’attuale coalizione dovesse lacerarsi per i contrasti sull’accordo di pace, i laburisti sarebbero pronti a sostenere il governo o concorrere a formare una nuova coalizione più pragmatica e orientata alla pace.
In una sessione dedicata all’opinione pubblica palestinese, gli esponenti di alcune ONG ne hanno sottolineato il grande sentimento di incertezza e di frustrazione rispetto alle condizioni concrete sul terreno: l’occupazione, la detenzione di prigionieri, le vessazioni quotidiane, l’espansione degli insediamenti. Il sostegno alla soluzione a “ due stati”, ancora maggioritario, va però scemando; vi sono segni crescenti di una recrudescenza di violenza nelle città e nei villaggi del West Bank; preoccupa l’opposizione del movimento “anti-normalization”, animato dalle fazioni più radicali di Fatah, che si oppone alla cooperazione fra ONG israeliane e palestinesi fino a quando la situazione sul terreno resta quella attuale di non-pace.
Nel colloquio parigino di JCall (una sintesi dei lavori è in www.akadem.org/sommaire/colloques/israel-palestine- 2020) si sono affrontati due temi distinti, ambedue parimenti rilevanti: l’economia e l’assetto di un accordo di pace in termini di sicurezza, territori, confini.
Sull’economia, vi è un materiale assai ricco di analisi e ignoto al largo pubblico, prodotto da un gruppo di lavoro di economisti israeliani e palestinesi animato da un professore dell’Università di Aix-en-Provence (www.aixgroup.org). I coordinatori del gruppo – Gilbert Benayoun, Arieh Arnon e Sami Bamya – che hanno partecipato al seminario, hanno sottolineato le difficoltà di cooperazione economica fra Israele e il futuro stato palestinese: le disparità di reddito pro capite (30.000 euro annui in Israele, circa 3.000 nel West Bank), la separazione fra il West Bank e la striscia di Gaza, le restrizioni imposte da Israele allo sviluppo di un settore privato autonomo nell’area C del West Bank che ammonta a circa il 60% della sua superficie, soggetta tuttora al controllo militare di Israele, frammentata dagli insediamenti ebraici e povera di infrastrutture. Tuttavia, campi in cui le due parti possono cooperare e produrre progresso economico e civile vanno dai trasporti all’energia, alla difesa dell’ambiente.
Arnon ha poi affrontato la questione dei rifugiati palestinesi (circa 5 milioni assistiti dall’United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA). Una soluzione complessiva dovrebbe contemplare un indennizzo per le proprietà perdute, un’opzione di scelta individuale per i rifugiati tra il “ritorno” in Israele, l’integrazione nello stato di Palestina, in altri paesi arabi, in paesi terzi e programmi di riconversione per coloro che lasceranno i campi profughi nel mercato del lavoro dei paesi di destinazione.
Sull’altro fronte, geopolitico, i molti intervenuti – alcuni politologi, l’ex Ministro degli Esteri francese Vedrine, Dan Goldenblatt, copresidente israeliano dell’IPCRI (un think tank israelo-palestinese di Gerusalemme)- concordano che il primo e fondamentale elemento del negoziato sia quello dei confini, territori e insediamenti. Le questioni di Gerusalemme e dei rifugiati saranno affrontate in tempi successivi. Una difficoltà ulteriore risiede nella divergenza di prospettiva: i palestinesi, infatti, memori della lezione di Oslo temono che un accordo transitorio diventi nei fatti definitivo e quindi rifuggono da intese che prevedano ad esempio uno stato con confini provvisori; gli israeliani temono che un accordo siglato come definitivo sia invece reversibile e che la fine del conflitto sancita nei trattati non lo diventi poi nei comportamenti concreti, cioè nell’accettazione piena, senza residue pulsioni irredentiste, da parte di palestinesi e arabi dell’esistenza legittima e permanente di Israele.
Una notazione interessante è venuta da Goldenblatt. Mentre il paradigma di Oslo nei 20 anni trascorsi dai tempi dell’accordo è stato quello del “divorzio”, reso celebre negli scritti di Amos Oz, cioè, della separazione fisica e politica dei due popoli in due stati-nazione, oggi e in prospettiva, data la forza del legame religioso-simbolico dei due popoli con la terra detta “Eretz Israel” o “Palestina” e la presenza di oltre mezzo milione di israeliani oltre i confini pre-1967, occorre immaginare un quadro diverso, distinguendo fra cittadinanza e residenza. Nei due stati-nazione, Israele e Palestina, vi sarebbero minoranze nazionali (arabi in Israele, ebrei in Palestina). I coloni israeliani che abitano nei “settlement blocs” (Modi’in Illit, Betar Illit, Ma’ale Adumim, Gush Etzion) sarebbero “annessi” a Israele nel quadro di un accordo di pace che preveda scambi di territori fra Israele e lo stato di Palestina. Altri ritornerebbero entro la Linea verde (i confini pre-1967) volontariamente, con indennizzi economici a loro favore (oggi il 50 per cento dei coloni ha un posto di lavoro all’interno della Linea verde, molti nel settore pubblico). Circa 100-120.000 resterebbero negli insediamenti come residenti dello stato di Palestina e cittadini di Israele dove eserciterebbero il diritto di voto. I profughi palestinesi si insedierebbero in Palestina o in altri paesi, tranne un numero limitato in Israele; questi, pur residenti in Israele, allo stesso modo godrebbero dello status di cittadini della Palestina.