di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Il ricordo del passato non deve acquietare e sedare, ma sollevare inquietudini costruttive. La banalizzazione, la ricerca di un impossibile pareggio, è un male “radicale”.
Si continua a parlare di memoria. La cosa, in sé, non può che farci piacere. Dopo di che, ai non pochi che ne vorrebbero fare un uso opportunistico, è buon esercizio ricordare alcune premesse inderogabili. Forse un poco stridenti per chi, invece, ritiene che fare memoria sia letteralmente “mettere una pietra sopra il passato”, ovvero versare una lacrima di circostanza per poi andare oltre, dichiarando assolto ogni obbligo di merito.
La prima cosa da dire è che la memoria civile non è mai un esercizio meccanico. Come tale, per l’appunto non implica obblighi (sarebbe un atteggiamento privo di senso quello che imponesse a qualcuno un ricordo che non sente suo) ma, piuttosto, conquiste: soprattutto, la conquista del diritto alla memoria, che è sempre e solo il prodotto di una profonda maturazione, degli individui come delle collettività.
Non esiste il «dovere della memoria» se non per coloro che sono testimoni diretti di fatti ed eventi; sussiste invece il diritto al ricordo, che chiama allora in causa quanti, arrivati successivamente, rivendicano non solo di sapere ma anche – e soprattutto – di capire. Da ciò deriva il fatto che ciò che chiamiamo memoria sia spesso divisivo per sua stessa natura. Separa quanto consideriamo accettabile dall’inaccettabile. Funge essenzialmente a questo, altrimenti sarebbe una colossale finzione. Possono coesistere nella stessa società memorie distinte, finanche antitetiche, ma è sempre e comunque una bufala colossale quella che evoca, vaticina, sollecita simmetrie e condivisioni – ovvero intercambiabilità – tra storie che ci restituiscono semmai i conflitti di cui è costellata l’esistenza umana.
Fare memoria non vuol dire mettere un coperchio su questo processo di evoluzione e trasformazione, che si compie attraverso gli attriti che attraversano e accompagnano la storia umana. La “par condicio” in storia (come in tanti altri campi dello scibile e delle relazioni umane) è il rifugio degli insipienti e dei poveri di spirito, ossia di quanti non sanno come argomentare gli atteggiamenti e le proprie condotte. Di cui comunque, a conti fatti, non intendono portare responsabilità alcuna per i concreti effetti che questi producono, anche e soprattutto nel lungo periodo.
Le memorie, infatti, non si equivalgono. Semmai si confrontano. Da ciò, quindi, anche il fatto che i falsi abbracci, dove si simula un consenso inesistente, sono simmetrici e speculari alla maniacalità paranoide e bipolare di chi, evitando di interrogarsi sul senso delle cose, le divide da subito tra “destra” e “sinistra”. Per poi, in genere, invocare un ipocrita superamento delle “divisioni”, a favore di una specie di equivalenza etica delle condotte, che ha tanto il sapore di una fittizia uniformazione al conformismo che avanza: tutti vittime, in ipotesi; nessuna vittima, per davvero. Come dire, pari e patta. Il ricordo del passato non deve acquietare e sedare ma, piuttosto, sollevare inquietudini costruttive. Una memoria vigile non unisce ed affratella nel sonno pesante dell’inconsapevolezza ma impone di verificare costantemente se le condizioni della coesistenza e della coesione sociale siano ancora sussistenti oppure si stiano progressivamente spegnendo.
Una democrazia è pluralista nelle sue forme e nei suoi contenuti di identità, di storie, di percorsi e così via. Altrimenti non è democrazia ma altro. Il “totalitarismo reale” non è solo quello che ci deriva dai regimi storici che l’hanno praticato politicamente ma anche da quel vuoto desolante di pensieri che alberga nella banalità di non pochi dei nostri contemporanei. La banalizzazione, in questi casi, è infatti un male radicale: indica la decontestualizzazione, l’estraneità insolentita, l’incomprensione totale della profondità di tante tragedie personali e di quel dramma corale che fu la guerra di sterminio nazifascista: chi a ciò risponde con l’evocazione dei gulag, delle foibe, dei “regolamenti di conti”, soddisfacendosi di un rancido pareggio storico, non intende rendere omaggio a coloro che precipitarono negli abissi del passato ma offendere quanti si adoperano affinché questo non abbia più a ripetersi. È quindi insopportabilmente “banale” la riduzione del ricordo di cose e persone trascorse ad una sorta di continuo chiacchiericcio, manipolando il passato attraverso i calcoli politici del presente: l’unico antidoto che viene in mente è l’invito ad andare a leggersi un gigante del Novecento quale rimane Vasilij Semënovic Grossman. A patto – si intende – che si sappia comprendere parole, righe, pagine che gocciolano, come fosse sangue, l’inchiostro della storia dell’umanità che cerca di sopravvivere.
Detto questo, chi non riesce a fare i conti con la sua e l’altrui storia, assumendosi quindi le responsabilità che gli competono, è bene che prima si guardi allo specchio e poi, storcendo la bocca, lo frantumi: la sua residua coscienza sta, semmai, in uno di quei molecolari frammenti, caduti per terra, non in un quadro di insieme che non gli riesce neanche di concepire, ovvero quello della cittadinanza costituzionale e democratica. Poiché la memoria serve a quest’ultima, non ad altro.