di Ugo Volli
[Scintille: letture e riletture]
Nel 1915, Gerhard Scholem (che dopo l’aliyà nel 1923 avrebbe cambiato il suo nome in Gershom), aveva 17 anni. Nato a Berlino in una famiglia ebraica benestante molto assimilata, con un padre anche ideologicamente intollerante sia dell’ebraismo tradizionale sia del sionismo, aveva ottenuto dopo dure battaglie in casa di studiare Torah con un rabbino e si era quindi trasferito all’università di Monaco. Qui strinse amicizia con un ragazzo un po’ più anziano di lui dalle origini abbastanza simili, Walter Benjamin.
Ne nacque un sodalizio umanamente intenso e intellettualmente ricchissimo, che Scholem racconta nella sua bella Storia di un’amicizia (Adelphi): fra il 1915 e gli anni successivi alla fine della prima guerra mondiale i due giovani si frequentarono moltissimo, fecero insieme un periodo di quasi esilio in Svizzera. In quel momento Benjamin si interessava già di alcuni dei temi che avrebbero determinato il suo impatto profondo sulla cultura europea (Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo è del 1916, Il compito del traduttore fu iniziato nel 1921, anno in cui fu pubblicato Per la critica della violenza, tutti confluiti poi in italiano nell’antologia Angelus novus). Scholem in quegli anni stava solo iniziando il suo studio della letteratura kabbalistica, il cui primo risultato sarebbe stato la tesi di dottorato del 1922 sul Sefer ha-Bahir ed era ancora attratto dal progetto di una “filosofia ebraica”, che per altri versi impegnava anche intellettuali tedeschi ebrei della generazione precedente, come Cohen, Buber e Rosenzweig.
In questo contesto Scholem scrisse alcuni brevi testi, dedicati soprattutto al dialogo con Benjamin, con cui condivide lo stile aforistico, la formulazione apodittica e dogmatica, non dimostrativa, con la difficoltà di interpretazione che ne consegue. Si tratta di un breve saggio su Giona, di “dodici tesi sulla giustizia”, un breve scritto sul lamento e un altro sulle verità e infine di “novantacinque tesi sull’ebraismo e sul sionismo da libri in parte antichi in parte non scritti estratte e redatte da Gerhard Sholem”. Tutti questi scritti, composti nella prima parte del 1918, sono ora pubblicati in edizione italiana da Morcelliana sotto il titolo Giona e la giustizia.
Vi si leggono frasi di grande forza visionaria, che disegnano un ragionamento originale anche se tutte da discutere. Per esempio: “Con la giustizia non si fa incantesimo, lo si fa con l’amore” (tesi 13 delle Novantacinque), “Il mito lega l’uomo magicamente, l’ebraismo storicamente” (14), da cui “Il cristianesimo è la reazione mitica contro la storia nel nuovo concetto dell’amore” (17). Ma anche: “L’ebraismo va dedotto dal suo linguaggio” (1), “La giustizia non è un concetto limite” (20), “Sion non è una metafora” (21), “La tradizione è l’oggetto assoluto della mistica ebraica” (22), che a posteriori sembrano costituire il programma di vita di Scholem. Non ho lo spazio per parlare qui della sorprendente interpretazione di Giona; concludo solo dicendo che questo libretto si legge con sorpresa e a tratti con sconcerto e poi si rilegge trovando sempre nuove ragioni di riflessione e sfide all’intuizione. Che grande filosofo ha perso l’ebraismo acquisendo il massimo storico della sua mistica!