di Emanuele Calò *
Secondo Edward H. Kaplan e Charles A. Small, in un articolo ormai risalente (Anti-Israel Sentiment Predicts Anti-Semitism in Europe, The Journal of Conflict Resolution, vol. 50, no. 4, 2006, p. 560) “Da un ampio sondaggio condotto su 5.000 cittadini di dieci paesi europei, abbiamo dimostrato che la prevalenza di coloro che ospitano opinioni antisemite aumenta costantemente con il grado di sentimento anti-israeliano” .
L’antisionismo che diventa antisemitismo sconvolge anche il senso stesso dell’ebraismo. Ed è un peccato, perché l’ebraismo non è il presente, è soprattutto il futuro.
Lo è se diamo un’occhiata al New Yorker del 1° Ottobre 2023 e leggiamo che “Nella Genesi D-o riposa dopo aver creato il mondo; nell’Esodo, D-o comanda agli Israeliti di riposare: “Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è un sabato per il Signore tuo D-o. Non farai su di esso alcun lavoro”. Si ritiene che fosse la prima volta che un’autorità religiosa o politica, invece di richiedere lavoro, richiedesse riposo. “Il sabato non è semplicemente un insegnamento pio”, spiega il professore della Duke University Norman Wirzba. “Ciò che è in questione è il senso stesso della vita.” Questo senso della profonda importanza del sabato è parte di ciò che ha portato i puritani in America. Le loro rigide convinzioni sabbatarie li misero in conflitto con le autorità inglesi, soprattutto dopo che King James pubblicò “The Book of Sports”, nel 1617, in cui incoraggiava i suoi sudditi a seguire il culto della domenica mattina con danze, giochi e attività ricreative nel pomeriggio. Per i puritani, tali violazioni indebolivano chiaramente il quarto comandamento e, quando potevano, approvavano leggi sabbatarie per proteggere il giorno del Signore: in Virginia, già nel 1610, fu decretato che “nessun uomo o donna oserà violare o infrangere sabato da qualsiasi gioco d’azzardo, pubblico o privato, all’estero o in patria”. L’articolo, di Casey Cep, è intitolato “La silenziosa rivoluzione dello Shabbath” e nel sottotitolo si spiega che “richiedere il riposo anziché il lavoro, è ancora un’idea radicale”.
Ma lo è anche se leggiamo, per dire, Alberto Luca Recchi, su RaiNews, dell’8 giugno 2023, in un intervento per la Giornata degli Oceani: “Occorre fare attenzione e mangiare in maniera consapevole. Non possiamo più mangiare in maniera ignorante come faceva nonno e gli uomini preistorici. E invece, talvolta, mangiamo come nel paleolitico. (..) voglio evitare che i miei nipoti, un giorno dicano: “nonno AL mangiava come un uomo delle caverne.” (..) Se un amico vi invita a cena e vi dice: “ti preparo l’orso alla griglia e il lupo in umido” voi gli rispondete: “ma sei matto?”. Se invece vi dice: “stasera pesce spada alla griglia e palombo in umido”, probabilmente rispondete, “il vino bianco lo porto io”. Ma pesce spada e squalo (il palombo è uno squalo), sono gli equivalenti in mare degli orsi e dei lupi. In natura non è previsto che i super predatori siano mangiati da qualcun altro.” Ricorda qualcosa? Ciò che in Rai si auspica per il futuro, gli ebrei lo praticano da millenni (sul punto, vedi su osservatorioenzosereni.it del 7/9/2023, In quale millennio eravamo moderni?). Tutto questo (anche tutto questo) verrebbe colpito dall’antisemitismo.
Se noi si discorre troppo di Olocausto, è perché non lo capiamo, quando basterebbe ricordare l’insegnamento di William Faulkner (in appresso richiamato in servizio). Un insegnamento così lineare da precluderne la traduzione: If was existed there would be no grief or sorrow.
Cosa e quanto guadagnano gli ebrei? Se pensiamo ai grandi personaggi, Hannah Arendt, quando ancora non si era spesa in operazioni famose ma non necessariamente esaltanti, quale “Eichmann in Gerusalemme”, scrisse (parliamo del 1944) che il popolo ebraico “Con un gesto grandioso e senza accennare una protesta ha tranquillamente concesso che il credito per i suoi grandi scrittori e artisti andasse ad altri popoli, ricevendo in cambio (in modo puntigliosamente regolare) il dubbio privilegio di essere acclamato padre di ogni famigerato truffatore e saltimbanco” (Hannah Arendt, The Jew as pariah, Jewish Social Studies, vol. 6, no. 2, 1944, p. 99[1]). Al riguardo, l’autrice chiamava in causa la mala fede. Sennonché, dopo tanti anni, la mala fede gode di ottima salute ed è diventata, essa stessa la regola, grazie a chi non vede e grazie a chi non vuole vedere.
La condizione di paria citata dalla Arendt si applicava magnificamente a sé stessa, atteso che il successo le arrise non per siffatta definizione bensì a causa dei virulenti attacchi a Israele per il processo Eichmann. Se andassimo a leggere, fra altro, un articolino di Adam Kirsch (A Shared Debt: The Correspondence of Hannah Arendt and Gershom Scholem, How ‘Eichmann in Jerusalem’ led the thinkers into a principled disagreement over Zionism and universalism that ultimately broke their quarter-century bond, Tablet, 5 febbraio 2018) troveremmo sufficienti riferimenti per capire quanto sia insensato arruolare la Arendt nel pantheon dei santi attraverso il solo slogan (altro non è) della banalità del male anziché su qualche altro suo studio maggiormente ispirato. Per esempio, la Arendt andrebbe studiata alla lettera, come è giusto che sia, quando sostiene che la salvezza dell’ebreo come paria si ottiene quando accede alla categoria di ebreo come parvenu (The Jew as pariah, cit., p. 121) e pazienza se questa categoria, guarda caso, riguarda pochi eletti fra i quali c’è proprio lei. Eppure, nello stesso saggio aveva sostenuto che Kafka era diventato sionista quando aveva capito che la vita degli uomini dovrebbe essere soddisfacente anziché eccezionale (p. 120).
Bisognerebbe riprendere un altro vecchio scritto della Arendt (Zionism reconsidered, The Menorah Journal, Automn 1945, Vol XXXIII, n. 2, anche in: Michael Selzer, Zionism Reconsidered: The rejection of Jewish Normalcy, MacMillan, Usa, 1970, p. 213; cita lodevolmente Borochov a pp. 220 e 239) e scuotergli un poco di polvere, per apprendere che, per lei, essendo lo Stato nazionale una struttura obsoleta, il sionismo non aveva prospettive. Eppure, nel dicembre 2022, Israele aveva quasi dieci milioni di abitanti: un notevole successo per uno Stato minuscolo, vittima di una brutale aggressione alla nascita.
Certo, Israele è odiata, ma anche gli USA sono odiati, eppure hanno salvato il mondo da fascismo, nazismo e comunismo. Israele occupa territori dove gli arabi sono maggioritari, ma basterebbe una cultura basata sulla semplice lettura dei giornali per constatare un caso inedito e pericoloso di mora credendi.
Da ultimo, si prende atto da più parti di una normalizzazione dell’antisemitismo. Leggiamo, per esempio che “stiamo osservando una crescita significativa nella normalizzazione dell’antisemitismo. Nel mondo accademico questo è in gran parte il risultato del successo della campagna per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) nel mainstreaming della demonizzazione e delegittimazione dello Stato di Israele e nel denigrare e ostracizzare i suoi sostenitori” (Miriam F. Elman, and Asaf Romirowsky. Postscript: BDS, Israel Studies, vol. 24, no. 2, 2019, p. 228). Questa opinione, però, è una goccia nell’oceano, perché da qualsiasi ricerca sulla normalizzazione dell’antisemitismo emergerebbe una quantità sufficientemente elevata di lavori il cui titolo richiama invariabilmente tale normalizzazione, da far concludere che la messe di studi sulla normalizzazione dell’antisemitismo è essa stessa anormale, e quindi si dovrebbe accendere una spia rossa. La quale spia dovrebbe convogliare questo quesito: stiamo parlando di casa nostra? Sì, pure di casa nostra. Certo se, come accaduto di recente, si esamina soltanto l’antisemitismo di destra e si manda in cavalleria quello di sinistra, il quadro ne risulta inevitabilmente distorto.
La distorsione della realtà è diventata la regola. In una fonte che arriva a milioni di persone, si sostiene che: a) gli arabi erano titubanti nei riguardi della Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU 181/1947 c.d. di partizione fra uno Stato arabo e uno ebraico, b) Israele violò l’ordine costituito quando dichiarò l’Indipendenza. Spiace dover ribadire che siamo sempre nello stesso deplorevole quadro, in quanto rispondiamo alle accuse e quindi noi si parte da una posizione di debolezza: il pubblico ministero non ha nulla da perdere, l’accusato sì. Alle accuse, quindi, rispondiamo che gli arabi non erano titubanti ma contrari e che gli ebrei, essendo stati subito aggrediti, non si vede con chi avrebbero dovuto negoziare l’indipendenza (cosa palesemente non richiesta da niente e da nessuno). Non ne parliamo, poi, di leggere la Risoluzione dell’ONU, perché non ve n’è traccia. A noi interessa chiarire che da una tale ricostruzione inaccettabile dei fatti, emerge che nel 1948 Israele non sarebbe stata vittima bensì aggressore. Ne consegue che i cinque Stati arabi cinque che invasero il neonato Stato ebraico non potevano che essere nel giusto. Certo, voler distruggere lo Stato ebraico dopo tre anni che erano stati distrutti gli ebrei europei non è bello ma, si sa, il buon gusto potrebbe arieggiare un vezzo borghese fino a identificarsene.
Stranamente, non si constata che questa è la normalità delle cose e che da quasi tutte le fonti italiane, dai libri di testo ai giornali, dagli interventi lunghi (eufemismo) su youtube, alle fonti del web, si spara ad alzo zero su Israele (dove sembra che ci siano degli ebrei); alcuni, però, non solo non se ne accorgono, ma si preoccupano soltanto dei busti di Mussolini e delle bottiglie di vino con l’etichetta mussoliniana. Guarda caso, è esattamente il copione ideale per certe forze politiche, il quale copione prevede l’esistenza di ebrei ciechi e, soprattutto, leggermente e simpaticamente sciocchi, i quali dovrebbero salire sul palcoscenico per recitare sempre la stessa parte: quella delle vittime. Ma vale la pena?
Se William Faulkner non fosse così tanto morto, possiamo essere tutti sicuri che direbbe agli equilibristi (specie a quelli che guardano molto il suolo e poco la fune) quel che egli disse in Requiem for a Nun, senza mutare, non dico una parola, ma neanche una virgola: “il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato” (Vintage, USA, 1975, p. 80), e lo sigillerebbe, come me, tramite virgolette e corsivo, ossia, cinta e bretelle[2].
[1] Per quello ho avocato a me i grandi ebrei italiani, per vedere se qualcuno restituisce il maltolto (Emanuele Calò, La questione ebraica nella società postmoderna Itinerari fra storia e microstoria, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2023, p. 96 ss.).
[2] Non provassero a dirmi che – tanto – Faulkner non era della nostra compagnia di giro (ancorché “imbevuto di sensibilità ebraica”, così: Scott T. Chancellor, William Faulkner’s Hebrew Bible: Empire and the Myths of Origins 2011 Electronic Theses and Dissertations 78, perché Woody Allen, che lo riprende, sicuramente vi appartiene (così, George Thomas, Telling Time: Faulkner’s Temporal Turn, The Mississippi Quarterly, vol. 69, no. 2, 2016, p. 278).
* Emanuele Calò è giurista, docente e saggista con centinaia di opere all’attivo, per anni dirigente dell’Ufficio Studi Internazionali del Consiglio Nazionale del Notariato e oggi, tra l’altro, direttore dell’Osservatorio Enzo Sereni. Ha appena pubblicato un ponderoso volume che fornisce una completa descrizione di tutto ciò che riguarda gli ebrei, sotto i diversi profili. La questione ebraica; Sionismo e antisionismo; Olocausto; Israele, Palestina e antisemitismo sono i capitoli in cui l’opera è suddivisa. Nulla è taciuto, tutto è analizzato, senza autocensure né intenti altri che non siano la presentazione di una realtà estremamente complessa nelle sue diverse prospettive. Storia, fatti, idee e ideologie, personaggi e movimenti, politica e pensiero, luci e ombre. Un’opera che diventerà un classico ineludibile della storiografia.
Emanuele Calò, La questione ebraica nella società postmoderna. Un itinerario fra storia e microstoria,
prefazione di Ruth Dureghello, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 504, euro 60,00.