di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Le parificazioni – tutti criminali, tutti uguali – sono una falsa scorciatoia
La risoluzione del Parlamento europeo, votata a grande maggioranza dai suoi deputati il 17 settembre scorso, nella quale si equipara, in linea di fatto, il fenomeno storico del comunismo sovietico al nazionalsocialismo tedesco, pone molti problemi e apre più interrogativi di quanti non ne possa chiudere. Poiché pare soddisfare una questione di senso comune: due dittature, una pari condanna, soprattutto se riferita allo specifico evento dello scatenamento della seconda guerra mondiale.
Se la questione di fondo è il giudizio etico sui due regimi, così come la loro assoluta inaccettabilità politica, va detto che il rifiuto di entrambi è fatto assodato. Che vi siano poi quanti, nell’uno come nell’altro caso, indugino ancora nel considerarsene depositari, facendone l’apologia, è problema che non riguarda strettamente le istituzioni. Al netto delle fattispecie penali, che vengono sanzionate, sia pure in maniera differente, dai codici di molti Paesi europei. La risoluzione, che è invece un atto istituzionale, in sé è pasticciata, confusa, incongrua e quindi inaccettabile da parte degli storici.
Questi ultimi non sono una corporazione chiusa al mondo (i «professoroni») ma studiosi e ricercatori che, tra le altre cose, lavorano anche sulla comparazione dei fenomeni complessi, quelli che si articolano nel corso del tempo, coinvolgendo un grande numero di persone e lasciando una traccia di lungo periodo. L’ansia di condannare, quindi, rischia di fare velo rispetto all’esigenza di costruire un tracciato ragionevole, poiché comprensibile, della storia europea. La quale, se non può essere fatta con i bilancini etici e gli equilibrismi politici, non può neanche essere consegnata alle maggioranze parlamentari del momento o agli umori della circostanza.
Primo punto, quindi: sanzionare il passato con un atto istituzionale è sempre un rischio. Vale per il comunismo, è valso per il fascismo. Poiché introduce nella libera valutazione politica, che deve appartenere sempre alla collettività, un vincolo a dire poco improduttivo. Non aiuta a capire, serve solo a censurare. Incentiva inoltre la recondita passione di certuni per il proibito, per ciò che è censurato.
Un sistema che si voglia liberale, riduce al minimo i divieti formali, sapendo di potere contare su una razionalità e una ragionevolezza diffuse. L’altra faccia dei proibizionismi, infatti, è la fragilità di chi proibisce.
Secondo passaggio: la tentazione di estendere la retorica del «male assoluto» a fenomeni diversi dal nazismo è sempre stata coltivata, dal momento stesso in cui si è parlato di quel regime in tali termini. I rischi che stanno dietro l’angolo, però, sono tanti. A citarne alcuni, basti pensare al ridurre la storia ad un susseguirsi di sistemi criminali (c’è chi vorrebbe che anche il «liberalismo capitalistico» fosse riletto in tale chiave); all’accomunare eventi luttuosi, ma di diversa matrice ideologica, impedendo di coglierne la specificità, tanto più quando omicida; mischiare Gulag e Lager (magari poi estendendo tale legittimo anatema anche ai sistemi di detenzione e internamento adottati da Paesi che hanno poco o nulla da condividere con l’hitlerismo e lo stalinismo, una tentazione che nelle università americane va estendendosi); soprattutto, alla relativizzazione della specificità della Shoah. Su quest’ultimo passaggio, il rischio che l’intera intelaiatura della risoluzione crolli, anche quando intenda esprimere le migliori intenzioni, è un problema concreto. Poiché a sollecitare un tale pronunciamento sono stati soprattutto quei Paesi dell’Europa dell’Est che, avendo subìto il dominio imperialista di Mosca, chiedono ora un legittimo riconoscimento della loro recente memoria da parte del resto del Continente. Cosa in sé del tutto sottoscrivibile se non fosse per il fatto che una parte di quei governi, e delle maggioranze politiche che li sostengono, si sta attivamente adoperando per relativizzare il coinvolgimento collaborazionistico durante l’occupazione nazista. E con esso, la responsabilità propria, laddove questa sia esistita, nella persecuzione, nella deportazione e nello sterminio delle comunità ebraiche nazionali. Quando si usano espressioni come «pacificazione» o «memoria condivisa» si scivola velocemente nel campo delle insensatezze. Non esiste nulla da condividere tra vittime e carnefici. Non importa di quale crimine. Così come le parificazioni – tutti criminali, tutti uguali – sono la scorciatoia per offuscare lo sguardo del passato, non la via consensuale per fare chiarezza su di esso. La politica delle condanne inappellabili, se può rispondere a specifiche esigenze di riconoscimento civile e morale delle vittime e dei loro congiunti, quando diventa l’involucro dentro il quale un’istituzione collettiva cerca di scrivere un libro di storia per tutti, indistintamente, è soltanto l’altra faccia di un giustizialismo populista che rischia di produrre una vera e propria eterogenesi dei risultati: invece che definire i valori comuni, alimenta il rancore vittimistico di chi cerca di riprendersi una qualche rivincita, o un immeritato vantaggio, quand’anche nel passato sia stato dalla parte del torto.