di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie]Il tema dell’hate speech, più o meno strettamente correlato a quello delle fake news (significativo che per definire la ricorrenza di fenomeni sociali negativi si faccia riferimento alla lingua inglese), rimanda ad una pluralità di considerazioni. La figura di Liliana Segre, e dell’impegno che ha profuso per dare corpo e cittadinanza ad una discussione che dal Parlamento della Repubblica si rivolgesse da subito all’intero Paese, cercando quindi di porre almeno dei limiti alla brutalità dilagante, non solo a quella verbale, ne è un po’ una sorta di epitome, ossia di sintesi ad uso e beneficio comuni. Anche quando – così facendo – è stata equivocata, almeno in alcuni casi, ovvero sottilmente o apertamente osteggiata, così come “tirata per la giacchetta” dall’una parte piuttosto che da un’altra. Chi vorrà liberamente fruire degli effetti di lungo periodo del suo impegno, lo potrà quindi fare sapendo che un tentativo istituzionale di affrontare il grandissimo problema è stato comunque posto in campo. Ed è divenuto oggetto della discussione pubblica. Vedremo in futuro con quali risultati
Chi invece, e non sono pochi, intenderà proseguire a trincerarsi dietro simulacri di interpretazioni, false comprensioni, giustificazioni preconcette così come anatemi aprioristici – soprattutto giochetti su appartenenze precostituite, consolidatesi in tifoserie inossidabili – proseguirà su questo versante, sordo e cieco rispetto al suo stesso futuro. Poiché l’agire diffamatorio, che lega i discorsi d’odio alla circolazione di informazioni deliberatamente false, prima ancora che essere il prodotto di un preciso disegno politico (tale altrimenti perché provvisto di un obiettivo preciso), è semmai il segno di un più generale processo di intossicazione che avanza nella società. Quindi, a ben vedere, qualcosa di peggio dell’intenzione politica medesima, qualora essa dovesse comunque sussistere. Il problema autentico dell’odio in rete, infatti, è che abbassa la soglia di vigilanza, e quindi di rifiuto da parte di tutti noi, verso l’aggressività nelle relazioni sociali, redendo invece accettabile ciò che dovrebbe continuare a rimanere censurato ed evitato. Non solo da parte delle istituzioni pubbliche, ma anche e soprattutto delle persone in carne ed ossa. Si tratta, a tutti gli effetti, di un processo di legittimazione della regressione, un’incentivazione di quegli elementi di retrocessione collettiva, negli inferi dell’istintualità, scambiati falsamente per una “scarica liberatoria”.
Ai lettori è bene ricordare che, tra le altre cose, il pregiudizio e i risentimenti antisemitici si alimentano proprio di questa congerie di fattori. Allignano e si attivano dentro un tale brodo di coltura. Se l’antisemitismo non è riconducibile al solo «razzismo contro gli ebrei», è non meno vero che esso prende corpo e sostanza quando la società è alla spasmodica ricerca di capri espiatori. Lo fa cristallizzando identità individuali e collettive, ovvero incapsulandole dentro degli stereotipi inscalfibili da parte dello stesso buon senso. Elementi che sono facilmente trasferibili, ossia che possono molto velocemente passare da un bersaglio all’altro. Quanti ritenessero di essere immuni dai mefitici effetti di lungo periodo della diffusione del contagio razzistico, magari pensando che “riguarda altri” (e dicendosi, per autorassicurarsi: “loro sono per davvero diversi da me e dal mio gruppo”), evidentemente non hanno capito quale sia la natura dello stesso antisemitismo. Che condivide, con gli altri razzismi, proprio l’odio esplicitato, rivendicato, esibito, nella sua nuda natura di saldo legame tra quelle persone che sono alla spasmodica ricerca di una colpa per “comprendere” e consolarsi delle proprie sventure (più prosaicamente: una qualche responsabilità da attribuire ad altri per la mancanza di sostanza nella loro esistenza). Il film di Roman Polanski sul caso Dreyfus, di cui ancora parleremo su queste pagine in futuro, è come una sorta di cartina di tornasole, restituendoci l’ordine dei problemi sui quali, allora come oggi, occorre continuare a ragionare.
La denigrazione personale perde allora il carattere di evento di circostanza, o attribuibile ad un singolo episodio, per diventare invece modalità attraverso la quale un’intera società si riorganizza, dando spazio a spinte antidemocratiche con il consenso di una parte non secondaria della stessa collettività. Che oggi un’arena fondamentale in cui si misuri un tale ordine di problemi sia sempre più spesso quella virtuale, è un fatto che va considerato nella sua dirompente rilevanza per la qualità della vita di ognuno di noi. Poiché nel web, parte integrante della nostra esistenza quotidiana, gli spettri dell’intolleranza hanno uno spazio inimmaginabile. Quello che gli deriva dal potere colonizzare l’immaginazione collettiva. L’odio divide una volta per sempre i carnefici dalle loro vittime, ma è anche un saldo ancoraggio di false solidarietà tra la nutrita folla dei primi. Storicamente molto più numerosi di quanto non siamo disposti a riconoscere. Poiché il carnefice è prima di tutto colui che, dinanzi ai disastri che ha concorso a generare, rivendica una sua adamantina purezza, una sorta di innocenza indistruttibile.