Le chiavi del passato. Shoah e foibe: un triste terreno di scontro sulla (impossibile) concorrenza delle memorie

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] È triste il doverlo riscontrare ma non è per nulla una novità: le due ricorrenze civili del Giorno della Memoria e del Ricordo sono diventate un campo di battaglia tra opposte fazioni. Soprattutto per ciò che riguarda il 10 febbraio, nei confronti del quale le divisioni sono decisamente pronunciate.

Per certuni, in un’ottica riduzionista se non apertamente negazionista, il dramma delle foibe, dell’esodo e la «più complessa vicenda del confine orientale» (così come recita il dispositivo di legge) è nella migliore delle ipotesi una concessione parlamentare fatta alla destra populista e anticostituzionale. In una tale ottica, le commemorazioni civili e la sensibilizzazione didattica si inscriverebbero in una sorta di tartufesca manipolazione della storia, a volere quanto meno attenuare le responsabilità fasciste nel passato. Per altri, invece, in un perverso gioco di simmetrie capovolte, il Giorno del Ricordo si trasforma in un esercizio di rivalsa, dove i trascorsi del Novecento vengono rubricati sotto l’indice esclusivo dei «crimini del comunismo». Facendo tabula rasa del contesto in cui si consumarono, ovvero le feroci guerre civili che l’occupazione nazifascista aveva innescato in diverse parti dei Balcani. E non solo.

Non è un caso, allora, se proprio tra questi ultimi l’accostamento pressoché immediato sia con la catastrofe della Shoah. Poiché così facendo, ovvero associando e sovrapponendo tragedie e drammi tra di loro diversi, cercano di capitalizzare una maggiore credibilità rispetto a quanto vanno sostenendo. Se i campi di sterminio nazisti costituiscono l’abisso per eccellenza della nostra modernità, per quale ragione non paragonare, e magari parificare, altri crimini ad essi? Non di meno, se le vittime sono tutte degne della massima considerazione civile e morale, perché non estendere un tale modo di considerare ciò che fu anche al giudizio politico, di fatto mettendo nello stesso sacco farine diverse? Beninteso, la questione in gioco, a tale riguardo, non è la condannabilità dei regimi criminali – e ancora meno un’ipotetica gerarchia nel dolore – ma la capacità di formulare un giudizio articolato su ognuno di essi, senza il quale tutto si fa non solo indistinto ma anche incomprensibile.

D’altro canto, nel buco nero delle atrocità le vittime stesse spariscono ancora una volta, risucchiate da un anatema etico che rischia di sbandare in moralismo di grana grossa. Alla base di questo modo di agire, qualche volta truffaldino, poiché in cattiva fede (orientato com’è soprattutto a ridimensionare le responsabilità di una parte politica rispetto ad altre), altrimenti ingenuamente sincero, c’è la visione del passato come di una sorta di territorio della par condicio, dove le tragedie vengono percepite e rilette in quanto intercambiabili. Quasi fossimo in presenza non di persone ma di mattoncini del gioco del Lego.

Fare storia, e con essa lavorare sulla memoria, implica il ragionare invece in maniera molto diversa. Prima che un’attribuzione di responsabilità, infatti, la storia si esercita non solo sugli eventi e i loro protagonisti ma anche – e soprattutto – sui contesti di cui gli uni e gli altri sono parte. La ricerca del riscontro fattuale, quindi, non risponde a un disegno preordinato, a un’intenzione da comprovare, costi quel che costi, bensì a un’indagine critica. Non è solo una questione di distanziamento raziocinante, di distacco analitico e problematizzante dagli eventi, senza i quali è altrimenti impossibile comprenderne la valenza civile e sociale di lungo periodo. Semmai si tratta di sottrarre all’ansia del presente la comprensione dei trascorsi. Senz’altro fare storia implica costruire chiavi di lettura del tempo che viviamo attraverso l’analisi di ciò che è stato. Ma il lavoro del buon fabbro non è mai quello di piegare le chiavi medesime alle singole serrature, secondo le esigenze del caso e del singolo committente, bensì di fornire a chiunque ne abbia bisogno un utile strumento di accesso alle tante stanze che costituisco quel gigantesco palazzo, a tratti un po’ babelico, che chiamiamo con il nome di passato.