di Paolo Salom
Processo di pace. – Soluzione a due Stati. – Fine del conflitto. Ecco la ricetta in tre mosse per risolvere la questione tra israeliani e palestinesi. Facile no? A sentire i portavoce del lontano Occidente – gli statisti che a turno dicono la loro sul Medio Oriente -, basterebbe un «gesto di buona volontà» da parte di Israele e tutto si aggiusterebbe. Dunque Netanyahu, con le sue recenti dichiarazioni, sarebbe il principale ostacolo alla fine delle violenze. Cosa ha detto il Primo ministro di Gerusalemme? In sostanza ha preso atto di una realtà che avviluppa da anni la regione: in un contesto di continua violenza, frontiere dissolte ed emergere di «non-Stati» fondati sul predominio settario, – questa la sua opinione -, immaginare una nazione palestinese sovrana non è al momento praticabile, in assenza almeno di un chiaro riconoscimento dell’ebraicità di Israele e di una esplicita rinuncia alla violenza (ovvero a un esercito). «Solo Israele – ha inoltre avvertito Netanyahu – potrà e dovrà garantire la sicurezza (e il disarmo) nei Territori a ovest del Giordano, non l’Onu o un’altra forza internazionale». Il Primo ministro israeliano ha spiegato al Times of Israel come, dopo averla accettata nel 2009, ha cominciato a dubitare della possibilità di una soluzione di pace con due Stati quando sono iniziate le primavere arabe nel 2011. Si è trattato, ha detto il premier, di rivolte «anti occidentali, anti liberali e anti israeliane». Se dovessimo ritirarci unilateralmente dalla Cisgiordania, come fu fatto dalla Striscia di Gaza, ha sostenuto, prevarrebbero gli estremisti islamici che vogliono distruggere Israele.
Come dargli torto? Non è difficile immaginare un gruppo estremista, finalmente libero di muoversi a piacimento tra Jenin, Ramallah e Hebron, sparare colpi di mortaio o razzi sulle piste dell’aeroporto internazionale Ben Gurion, o magari verso Gerusalemme o Tel Aviv, con le immaginabili conseguenze per l’intero Paese. Eppure, nell’immaginario del lontano Occidente, non è il reiterato e continuo rifiuto dei palestinesi a trovare una soluzione (magari temporanea), che riconosca le semplici condizioni chiarite da Netanyahu («Voi siete lo Stato ebraico, noi quello arabo-palestinese; rinunciamo per ora a un esercito») – che nulla toglierebbe alla loro sovranità -, bensì la «testardaggine» israeliana a vanificare ogni possibile avanzamento del «processo di pace». Qualunque cosa (per noi: nessuna) voglia dire questa espressione coniata all’indomani di Oslo: cioè oltre vent’anni fa. Naturalmente, questa posizione preconcetta e anti-israeliana non fa altro che alimentare il fronte del rifiuto palestinese – certo di poter ottenere tutto a costo zero – camuffato al punto che ogni «no» di Abu Mazen e compagni si trasforma magicamente, per il pubblico delle anime belle, in un diniego di Israele. Se questi sono i nostri amici, qualcuno penserà nelle segrete stanze del governo di Gerusalemme, chi ha bisogno di nemici?