di Claudio Vercelli
[Soria e controstorie]
Ne abbiamo già parlato su queste pagine, anche ripetutamente. Ma mai basterà. La ricorrenza dell’ottantesimo dall’emanazione e dalla promulgazione delle leggi razziste del 1938 ha infatti un significato particolare. Il rischio, in questo come in altri casi, è che dinanzi al ripetersi delle ricorrenze, stretti da un’attualità politica che pone un grande numero di problemi, ci si ponga così come si fa per i ritualismi obbligati: uno sbadiglio e la falsa convinzione che ciò che è stato mai più sarà. Un atteggiamento che vale soprattutto in campo non ebraico, dove la tentazione, da parte di certuni, è quella di domandare retoricamente il perché si continui a parlare del passato, di quel passato, quando le questioni dei giorni nostri demanderebbero a ben altri ordini di priorità.
La risposta da dare a chi si rivela stanco anticipatamente (i polemici, al riguardo, sono proprio coloro che non vorrebbero sapere, intendendo la memoria come un esercizio obbligato al quale sfuggire il prima possibile) è che quelle norme appartengono senz’altro ai trascorsi del nostro Paese ma lo interrogano politicamente al presente e per il futuro. Poiché, se non è meno vero che colpivano con ferocia una minoranza nazionale, tuttavia hanno inciso nel corpo della nazione, intesa nella sua interezza. Non si tratta di un problema puramente morale ma di una questione politica fondamentale che, come tale, chiama in causa tutti gli italiani. Allora come oggi. C’è una sfilza di luoghi comuni, ripetutamente smentiti dalla storiografia (basti pensare, tra i tanti, al lavoro certosino di Michele Sarfatti) come dallo stesso buon senso, però abitualmente riproposti non solo dalla pubblicistica di grana grezza ma anche da una rilevante parte della pubblica opinione.
Ed allora vanno ripetute, a costo dello sfiancamento, alcune realtà (prima ancora che verità) storiche abbondantemente acclarate e verificate. La prima di queste è che le leggi del 1938, anno infame per l’ebraismo europeo, non nascevano nel vuoto politico ma erano il prodotto di una precisa intenzione discriminatoria e persecutoria, di cui il regime fascista era senz’altro l’alfiere ma che incontrò l’assenso delle istituzioni che fasciste non erano, a partire dalla monarchia. Nella redazione e nell’applicazione di quelle tragiche norme non ci fu coazione o adempimento alcuno di obblighi derivanti da una qualche presunta subalternità verso terzi. Men che meno nei confronti dell’alleato tedesco, nei riguardi del quale era in corso semmai una sorta di implicita competizione per stabilire l’andamento e i confini delle egemonie a venire in Europa. Mussolini sapeva bene come l’Italia fosse sul piano militare il partner di minoranza e cercava quindi di anticipare e integrare le mosse di Berlino. Tuttavia, nelle loro scelte, il dittatore italiano e la classe dirigente fascista erano completamente e integralmente autonomi. Nonché convinti della necessità di operare razzisticamente, a prescindere dal «camerata germanico».
Semmai, quello che si verificò fu una convergenza d’interessi politici, prima ancora che strettamente ideologici, tra il regime e le altre istituzioni italiane. Nel nome di nuovi assetti europei di cui i fascismi si facevano garanti. A riscontro di ciò, rimane il fatto che nessuno si pronunciasse contro quelle norme, nel momento in cui i silenzi contavano più delle stesse parole. Lo stesso antifascismo, che pure era minoranza e in esilio, faticò a comprenderne il significato e l’impatto.
Un’altra leggenda è quella per cui, in omaggio allo spirito italiano (confusionario e bonaccione, secondo la vulgata ancora oggi ricorrente), la loro concreta applicazione fu episodica o comunque fortemente attenuata nei suoi effetti. Si tratta di un convincimento tanto diffuso a tutt’oggi quanto totalmente falso. La traduzione di una norma razzista in un’azione di politica amministrativa richiede il costante e convinto concorso di una pluralità di soggetti. Non basta la manifestazione di volontà del politico. Occorre invece che l’intera organizzazione statale si metta sulla lunghezza d’onda della sua trasformazione in atti concreti, destinati ad incidere, e per lungo tempo, sulla società. L’applicazione fu quindi un tragico esempio di determinazione collaborativa, oltre che di collusione e corresponsabilizzazione, tra attori diversi. Fu presentata ed attuata, al medesimo tempo, come un esercizio sistematico ma asettico di “igiene razziale” e di protezione della collettività dalla presenza di figure – gli ebrei – ora espulse dal consesso civile poiché denunciate come pericolosamente aliene.
Ma di tutte le sciocchezze che continuano a circolare, quella che più ferisce (ed impensierisce) rimanda alla convinzione, piuttosto diffusa, che la questione delle leggi razziste fosse parte della cosiddetta «questione ebraica» (quest’ultima un’invenzione di grande successo degli antisemiti). In altre parole, che si sia trattato di un problema degli e per gli ebrei (fatti in “un certo modo”, non del tutto integrabili nel tessuto civile come invece il resto della popolazione), e non per tutti gli altri. L’introduzione di una legislazione discriminatoria, da questo punto di vista, non solo colpì i suoi diretti destinatari ma l’intera collettività, anche se ovviamente con effetti diversi. Il senso delle leggi del ’38, infatti, riposa nella dichiarazione di revocabilità della cittadinanza. Di quella giuridica ma, prima di tutto, di quella umana e sociale. Lo Stato moderno, nato per garantire riconoscimento, protezione, tutela, sostegno ai suoi cittadini, si adoperava affermando che una parte di essi non era più da considerarsi tale. Poiché non erano esseri umani ma, piuttosto, soggetti umanoidi. Nell’assenso colpevole dei molti. Il clamoroso passo indietro era tangibilissimo e non chiamava in causa solo le vittime bensì gli stessi spettatori, ossia la parte restante degli italiani, al netto dei carnefici fascisti. Per parte nostra, non si tratta di una tardiva chiama in correo ma di un riscontro oggettivo. Colpire le minoranze nazionali serve da sempre ad allineare le maggioranze al volere del potere totalitario. Poco meno di un anno dopo sarebbe iniziata la guerra mondiale, con gli esiti che tutti conosciamo. Questo, oltre a molto altro ancora, ci consegna la memoria di quella infamia. Non è un tardivo e ossessionato esercizio identitario ma la sincera preoccupazione per ciò che implica la cittadinanza democratica, soprattutto quand’essa è sottoposta alle torsioni, alle frizioni, agli sbreghi dei tempi incerti.