di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Uno stato di cose, una persona oppure un gruppo di persone, così come un insieme di relazioni, e quant’altro, esistono – al giorno d’oggi – se sono oggetto di discussione pubblica. In altre parole, qualora la loro immagine (al netto del fatto che ad essa corrisponda un effettivo riscontro) sia veicolata, ripetuta, consolidata dai mezzi di comunicazione, essa assume una consistenza tale da fare sì che abbia una sua veridicità a prescindere da qualsiasi dato oggettivo.
In altre parole ancora: nell’età dell’economia della conoscenza e dell’informazione, ciò che conta non è il riscontro fattuale, ma il dato per cui se di una cosa si parla, allora avrà una sua ragione d’essere. Non si parla di ciò che esiste per davvero, ma di quanto si ritiene possa esistere.
Tutto ciò al netto di qualsiasi altra considerazione, poiché il vero fuoco della comunicazione non è mai l’oggetto in quanto tale, ma l’immedesimazione in esso che, quanti comunicano, esprimono tra di loro sempre e comunque. Non si comunicano astrazioni, ma pensieri concreti, tali soprattutto perché rimandano a quel bisogno di vita che tutte le parole, anche quelle peggiori, contengono in sé. I pensieri non sono mai “cose” fisiche ma idee su di esse.
Per parte nostra, non c’è bisogno di concedere alcunché, tanto meno ai discorsi d’odio, se non il riscontro che chi li pronuncia cerca, il più delle volte, di affermare qualcosa di sé stesso.
Anche per questo l’ossessività con la quale vengono ripetuti determinati assunti deliberatamente falsi (ribaltando un tale stato di cose nel loro opposto, ossia in una verità senza bisogno di verifica, quindi una sorta di assioma dell’esistenza), interferisce direttamente non solo con il comune bisogno di capire, per poi potersi comportare di conseguenza, ma con la dignità che ognuno di noi cerca di conferire alla parola “vita”. Che non è mai solo una dimensione individuale bensì sociale, sviluppandosi in un contesto di relazioni comuni, dove si esiste grazie anche al riconoscimento che della nostra esistenza è fatto dagli altri (e viceversa).
Se si riconosce come accettabile il falso, allora l’esistenza stessa rischia di essere manipolata. In una sorta di anarchica babele dei significati.
Ed allora, un’argomentazione contro l’evidenza è tanto più irritante non solo per la sua immediata evidenza antifattuale ma per il fatto stesso che invada il nostro diritto a relazionarci liberamente con gli “altri” da noi stessi. Interferendo pesantemente con la possibilità di comunicare senza fallacie e mistificazioni, poiché concretamente ci obbliga – invece – ad un percorso a slalom non tra opzioni e opinioni bensì tra molteplici trabocchetti.
Anche per questo la petulanza con la quale invece certe falsità vengono ripetute, ad onta di qualsiasi verifica, risulta non solo provocatoria ma, purtroppo, in linea con i cliché della stessa società della comunicazione globale. La quale non si alimenta di riscontri e controlli di merito bensì di clamori e spettacolarizzazioni.
Le rappresentazioni delle attuali vicende in corso in Medio Oriente, con l’ossessionante ricorso ad un arsenale di luoghi comuni e pregiudizi, ai limiti del tifo degli ultras, rispondono ad un tale criterio. L’antisemitismo, in quanto schema della falsificazione del discorso pubblico in età contemporanea, costituisce una cartina di tornasole al riguardo, concentrando in sé tutti gli elementi della manomissione del discorso pubblico. Lo schema, non a caso, si ripete nell’ossessione di un incubo permanente, quello della presenza altrui (i “sionisti”, espressione ingentilita con la quale rifarsi agli “ebrei”) che costituirebbe il veicolo della degenerazione collettiva, della subordinazione a poteri tanto forti, e imperscrutabili, quanto innaturali.
Parlare di Israele in tali termini non è poi troppo diverso, alla resa dei conti, dall’argomentare su ebrei e decadenza della “civiltà”. Le cose si tengono a braccetto. E si rinnovano tra di loro, in un meccanismo perverso che è poi quello del cane che si morde la coda, convinto di avere catturato una preda.
A tale punto della riflessione, vale un’avvertenza per ognuno di noi: la tracotante ignoranza, la delirante superstizione, l’adulterazione dell’orizzonte di significati si sono sempre mascherate, in età contemporanea, sotto la finzione del discorso sulle “libertà” e sul contropotere. Una falsa coscienza alimenta, da molto tempo, la trasformazione dell’analisi critica in pregiudizio consolidato. Non si tratta di una novità.
Anche per questo, a modo suo, istituisce una sorta di pedagogia nera, basata sul ripetere lo stravolgimento della ragione in illusione e incubo. Il nero, in fondo, a volte piace di più di altri colori. Se non altro perché cancella qualsiasi sfumatura. E con essa, anche la pluralità della vita.