di Fiorella Nahum
Inevitabilmente, le notizie che riguardano Israele acquistano un rilievo particolare nel quadro di tutte le vicende etiche, territoriali, belliche, storiche e politiche dell’umanità. E un faro potentissimo si accende sempre e subito sui poco più di 9 milioni di abitanti (2 dei quali arabi e 7 ebrei) che abitano complessivamente lo Stato di Israele, le cui dimensioni non superano i confini e la densità abitativa di mezza Lombardia.
È un rituale inappuntabile, intensificato dopo quel famigerato 7 ottobre 2023, quando una banda di sadici terroristi rispondenti al nome di Hamas (in ebraico antico hamas significa violenza) preparati militarmente e psicologicamente in modo accurato e minuzioso a 360° con l’aiuto di Stati e organizzazioni da sempre votati alla negazione del “diritto all’esistenza di Israele in terra araba”, ha sorpreso il mondo con la più efferata impresa terroristica rivolta a civili inermi, che l’umanità ricordi dopo la Shoah.
Sono stati massacrati con feroce sadismo in un solo giorno, 7 ottobre 2023, entro i confini dello Stato, 1400 civili, prevalentemente vecchi, donne, giovani ragazzi e ragazze, bambini, neonati, alcuni ancora feti nel grembo materno, oltre a 240 di essi rapiti e deportati. Dove? A tutt’oggi, alla vigilia di una tregua auspicata da tutti, non se ne sa più nulla: qualcuno è ancora senza nome né identità accertata, forse morto, ma quel che è certo è che molte donne giovani sono state stuprate e violentate.
Con una politica da bazar mediorientale, la maggior parte di loro, dei 240 rapiti, è stata spezzettata in piccoli gruppi e subappaltata ad altri movimenti terroristici (fra cui Jihad o Daesh) o a piccoli “imprenditori” di paesi amici (con interessi puramente economici) e trasferiti non si sa dove per essere usati come merce di scambio, in un baratto il più conveniente possibile, con detenuti palestinesi nelle carceri di Israele. Una mattanza e un mercato crudeli, una faida da tribù primitive di tempi quasi preistorici, e inimmaginabili dopo le guerre di religione dei nostri 1000 e passa anni di medioevo, e dopo 80 anni dalla Shoah di Hitler che fece sparire dal mondo 6 milioni di ebrei europei.
Tutto questo ad opera di “Hamas”, definita da una larga parte dell’opinione pubblica mondiale “eroico difensore di uno Stato palestinese”, mai nato né voluto da nessuno, e tanto meno dagli Stati vassalli dei mandati e dei protettorati anglo-francesi, post prima guerra mondiale, che misero tutti i 700.000 fuorusciti di allora in campi profughi a tempo indeterminato, senza un solo progetto per la loro vita futura. E li dimenticarono lì, “tenendoli a vergogna del mondo”, come spiegò ai miei zii, turisti in Libano negli anni ’50, un tassista di Beirut, che li scorrazzava in giro per la città e i suoi dintorni. Erano 700.000 profughi e ora sono oltre 5 milioni, quasi tutti apolidi, o con varie cittadinanze, educati all’odio per 75 anni.
La cosa straordinaria è che, a differenza di tutti gli altri Stati e governi del mondo, nati tutti da guerre, rivoluzioni, migrazioni, colpi di stato, assassinii, rivolte di popolo, complotti, ecc. quasi sempre cruenti e illegittimi secondo i canoni del dritto internazionale, sempre da tutti invocato, solo Israele – nato pacificamente da una risoluzione dell’ONU – è stato delegittimato fin dall’inizio, da una parte irriducibile e tenace dell’opinione pubblica mondiale, che rifiuta da sempre la spartizione votata dall’ONU nel 1947, della Palestina in “due popoli, due Stati”, cosa che forse allora sarebbe stata possibile.
È rimasto viceversa da sempre vivo e inalterato nel mondo arabo e nei campi palestinesi solo il ricordo simbolico ed emblematico della “naqba”, tragedia, disfatta e disastro attribuito esclusivamente allo Stato di Israele, da riscattare col sangue a tutti i costi, e malgrado tutto. Sono passati 75 anni ed è rimasto solo un terribile eterno lamento, che fa pena a tutti, e lascia sgomenti , come di fronte ad una tragedia greca. È l’imperdonabile peccato originale che ci toglie il diritto alla vita, anche se nemmeno Dio lo vedeva così.
Ricordo che ho provato la stessa sensazione quando a Tripoli il cimitero ebraico è stato distrutto da Gheddafi per farci passare un’autostrada e le tombe dei miei nonni materni, entrambi veneziani morti in Libia, sono state sconvolte dalle ruspe, e di loro non è rimasto più nulla. Solo nel 2022, grazie David Gerbi, il promotore dell’idea e il coordinatore di un gruppo di finanziatori, per i miei nonni è stata messa una targa al Cimitero di Prima Porta a Roma, che ha ridato loro un nome e ci aiuta a ricordare che sono esistiti.
Ricordo anche che ho avuto la stessa percezione alcuni anni fa a Varsavia, quando con tenacia e commozione, ero andata con un collega a cercare le rovine e il luogo del vecchio Ghetto, simbolo di resistenza, distruzione e deportazione e morte di tutti gli ebrei polacchi durante la seconda Guerra Mondiale. Nessuno ricordava, nessuno ne sapeva l’ubicazione, non c’era più niente, nessun testimone, solo, trovata casualmente, una stradina secondaria, con un piccolo cortile, una parete, la traccia di una porta, in mezzo a nuovi quartieri e palazzi tutto attorno. Alla vita che continua e cambia tutto, si sposa quasi sempre una disumanizzazione inimmaginabile.
È stato un gran dolore per me e una profonda frustrazione per quella crudele indifferenza, dopo tutta la Storia che avevo studiato e i ricordi vivi di quella tragedia, ma non ho provato odio. E ho pensato ai palestinesi, vittime di tutti e dell’odio perenne che li ha tenuti in vita, con profonda tristezza, per il loro vittimismo e la loro incapacità di guardare avanti e continuare a vivere per se stessi, assieme e fra gli altri popoli, anche se questo non giustifica certo quello che oggi debbono ancora subire.
Se si considera che ci sono al mondo, tutto il mondo conosciuto, meno di 15 milioni di ebrei sopravvissuti come tali ancora oggi, a fronte di oltre 2 miliardi di musulmani, e 8 miliardi di esseri umani viventi in tutti gli angoli della terra, 2,3 miliardi dei quali cristiani, si capisce come tutti questi discorsi, queste teorie per una soluzione facile come quella dei “due popoli due stati” siano complesse e quanto mai asimmetriche e difficili da raggiungere, se pur razionalmente le sole desiderabili.
E non dimentichiamo che Gesù era ebreo, nato nel Regno di Israele, censito come ebreo dai Romani, allora padroni di quella terra alla quale diedero il nome di Palestina in spregio agli ebrei sconfitti nel 134, perché dei filistin (Filistei) gli ebrei erano i nemici storici. (I filistei erano un popolo non semita, originario di Cipro, il cui “campione” Golia era stato ucciso mille anni prima dal Re David fanciullo; nulla a che vedere quindi con i palestinesi di oggi).
Quella terra che per 600 anni, dopo dispersioni e vicissitudini, appartenne all’Impero Ottomano, dove tutti i sudditi erano semplici portatori di tributi, con i non musulmani considerati “dhimmi”, ovvero sudditi di seconda categoria, rispetto ai sudditi musulmani, davanti al Sultano, tutti senza differenza di provenienza etnica o territoriale. Fino al trattato di San Remo del 1920 che pose fine alla Prima Guerra mondiale con il crollo e lo spezzettamento dell’Impero Ottomano secondo la logica dei vincitori: comunque, sempre e dovunque vincitori. E ne nacquero i mandati anglo- francesi pro-tempore per aiutare i vari popoli verso l’indipendenza in senso nazionale europeo, con profonde ambiguità e una pericolosa ignoranza filosofica, storica, sociologica e culturale.
IL MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI
La stessa ignoranza che ci fa tornare oggi con i piedi per terra con vero e profondo sgomento.
La prima domanda che mi sono posta è stata questa: ma chi sono e cosa vuol dire essere un “intellettuale”?
È qualcuno cui far riferimento per aiutarmi a capire? Vuol dire supremazia dell’intelletto? Accumulo di conoscenze acquisite con un faticoso e lungo lavoro di gavetta, o intelligenza illimitata regalata da Dio? Che contributo può dare un intellettuale allo sviluppo dell’umanità futura? Perché ci dobbiamo mettere questo giogo sopra la testa? Ne abbiamo davvero bisogno? La mia risposta è no: se gli intellettuali sono questo, non ne abbiamo proprio bisogno perché non ci illuminano, ma ci confondono le idee. Ci plagiano e ci tolgono la nostra libertà di pensiero e di giudizio, per piccola che sia. E non sono nemmeno convincenti, si arrampicano sugli specchi per aver ragione, e si contraddicono.
Sono stupita e profondamente disgustata per la logica e le ragioni addotte da 4.000 docenti universitari e intellettuali italiani, nel firmare una petizione che condanna Israele per “genocidio” (un popolo che in 75 anni passa da 700.00o a 5 milioni non è oggettivamente vittima di genocidio, ndr) e interrompe qualsiasi relazione con le sue università, luoghi di cultura e progetti scientifici e artistici, comunque benefici per l’umanità. Nemmeno la strage compiuta dai soldati di Putin a Bucha è ruscita a tanto: perché alla Scala si sono giustamente continuati a tenere in cartellone i concerti di Termikanov, il Boris Godunoff, la presenza di artisti russi, la proiezione di film russi, e così via.
Ma quando si parla di Israele e di ebrei, è diverso, gli ebrei sembrano l’emblema del peccato originale non ancora elaborato: hanno fatto scuola al mondo, ma non hanno diritto ad essere scuola. I 4.000 professori italiani sì, e ci insegnano cose senza senso e senza perché, accomunati da un’indicibile invidia del “sapere”, al punto di arrampicarsi sui vetri per affermare le loro idee e i loro pregiudizi, incapaci di ammettere i loro limiti e di leggere la realtà. È preoccupante che solo gli ebrei, e per loro Israele, siano rimasti al centro di questa indignazione che vorrebbe ispirare la scuola che prepara i giovani di domani, e il nostro futuro, perché sono loro che aprono la strada ad una nuova subdola forma di antisemitismo, oltre quelle già esistenti. Non si può, non si deve giudicare, se non ci si tira fuori da una querelle: il giudizio per essere giusto deve ispirarsi a una forma di terzietà, altrimenti che giustizia è?
E ancora più preoccupante è l’indifferenza con cui gli italiani hanno accolto questo manifesto, e la stampa ne ha appena accennato nei suoi articoli, e nelle sue trasmissioni, lasciando che il tempo e il silenzio vi mettano sopra un manto pietoso. Ma non sempre è così: una goccia scava la pietra e la storia palestinese insegna.
Perciò ho trovato estremamente chiaro, opportuno e coraggioso quello che Elena Loewenthal, unica che io sappia, ha scritto di getto su la Stampa di sabato 11 novembre, contestando le argomentazioni di questo “presuntuoso” manifesto. Non è la prima volta che la base si rivolta contro i sovrani “per grazia di Dio”: non ce n’è bisogno. Sono i popoli che fanno la storia. E il tempo ci darà ragione.