Lo scandalo inaccettabile: tra antisemitismo e antisionismo, gli “utili idioti” contro l’Occidente, amati dai despoti

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Mai come ad oggi l’ebraismo italiano, al pari di quello europeo, è risultato così isolato. Quanto meno, se si vuole compiere un rimando al passato, a fare da ciò che avvenne nel 1982, con il conflitto in Libano e i massacri falangisti nei campi profughi palestinesi. Prima ancora, tra il 1967 e il 1973, in quelle che furono guerre tanto di espansione quanto conflitti di sopravvivenza. Poiché l’ebraismo paga, ai giorni nostri, lo scotto di molte questioni aperte. La prima di esse rimanda, ovviamente, ai riflessi drammatici dei conflitti mediorientali. La cui potenza sta nell’essere storicamente irrisolti, ossia nel trascinarsi nel corso del tempo, attraversando diverse epoche, così come coinvolgendo culture, storie e identità distinte, con la carica che l’inerzia dell’eterna ripetizione sembra dare ad una quiete invece fittizia, sotto la quale cova semmai il fuoco dell’odio reciproco.

Odiare gli ebrei, beninteso, è un antico esercizio. Tuttavia, non occorre alcun piagnisteo, almeno in questo caso. Piuttosto la consapevolezza che, quando non c’è la volontà di arrivare ad una mediazione, allora subentra l’infinita contrapposizione, quella che trasforma le persone in simulacri di comodo rispetto alla concreta esistenza di sé stesse. Essere ebrei non implica mai avere ragione a prescindere. Tuttavia, nella “condizione ebraica”, quella del tempo trascorso come di quello odierno, si raccolgono molte domande che rimandano al più generale senso dell’esistenza umana. Che sia quella degli ebrei come di coloro che, nella maggioranza dei casi, tali invece sono.

Non a caso al trauma del pogrom antigiudaico del 7 ottobre 2023, che stiamo ancora vivendo nei suoi effetti di lungo periodo, si accompagna un altro problema di fondo, ossia il riscontro del bisogno, per parte di non pochi, di essere (e dichiararsi) “antisionisti”. In maniera libera, ovvero “finalmente” scevra da mediazioni di sorta, quindi senza filtri che non siano quelli dettati perlopiù da un calcolo di circostanza. Ciò facendo, tuttavia, costoro si mascherano sotto il rigetto pregiudiziale dell’esistenza dello Stato d’Israele (l’ebreo “collettivo”). Poiché, oggi più che mai, il rimando all’”antisionismo” è essenzialmente la nuova formula di un vecchio paradigma, quello che rigetta l’ebraismo come collettività politica. Al tempo nostro, tale in quanto non più asservita ma da sé emancipata. Beninteso, dietro (e dentro) a tutto ciò, ci sarebbero un’infinità di osservazioni da avanzare. Non per preconcetta difesa del governo di Gerusalemme – che per nulla è esente da colpe – bensì per esercizio di comprensione storica. Da parte di tutti. Quindi, a partire dai protagonisti in campo. Così come di noi spettatori di tale diatriba. Il punto, tuttavia, non è solo questo.

Lo Stato d’Israele, ovvero perlopiù la sua immagine pubblica deformata, quella che ne risolve l’interna complessità nell’essere invece squalificato aprioristicamente come esperienza storica “colonialista”, “suprematista”, “imperialista”, in tutto ciò svolge – non a caso – il ruolo di capro espiatorio. Proprio perché è parte in causa in quanto sta nel mentre avvenendo, ossia nel collasso del vecchio Mediterraneo orientale. E non solo di quest’ultimo.

Il rimando a Israele è allora come una sorta di sostanza agglutinante, un collante ideologico che riesce a mettere insieme soggetti altrimenti diversi. Tuttavia, nello specifico caso, accomunati dalla disperata ricerca di un copione da recitare ossessivamente. Il quale riduce l’intrico degli eventi a un unico indice di riferimento: l’abusività storica, politica e soprattutto morale, dello Stato degli ebrei. Dal 1948 ad oggi, infatti, la presenza d’Israele continua ad essere vissuta, dai più, come una sorta di scandalo inaccettabile. Nel mondo arabo, come in quello musulmano, così come – ad oggi – anche in Europa e nell’Occidente. I moti nelle università sono una cartina di tornasole di tutto ciò.

Cerchiamo infine di capirci: l’isteria anti-israeliana non ha nulla a che fare con i concreti eventi bellici in corso a Gaza. Poiché – semmai – ci evidenzia come una parte della pubblica opinione rischi di ripiegare sull’illusorio convincimento che possa bastare a sé medesima, nei suoi preconcetti, senza preoccuparsi del declivio al quale invece minoranze eversive, come tali assordanti e rumorose, sottopongono gli istituti democratici. In una sorta di gioco di sponda, da parte di queste ultime, con quei poteri oligarchici che, dal declino delle democrazie, hanno tutto da guadagnare. Poiché gli utili idioti delle cause improbabili sono i vassalli e i serventi, da sempre, dei prìncipi e dei despoti di turno. In gioco, allora, non c’è l’insindacabile diritto di “criticare Israele”, come soprattutto i suoi governi e le loro opinabilissime politiche. In questione, ancora una volta, è semmai chiamato in causa un brutale riscontro. Quello per cui quando l’antisemitismo, variamente camuffato, si manifesta, allora è la libertà di tutti a rischiare di essere minacciata. Gerusalemme non ha, ne mai avrà, ragione a prescindere. Ma non si può prescindere da Gerusalemme. Duemila anni fa così come oggi. Che piaccia o meno.