di Emanuele Calò, Daniela Santus
Roberto De Vogli (Blog FQ, 5 novembre 2024) scriveva: “Un recente sondaggio dell’Institute for Social Policy and Understanding, condotto in tre stati chiave (Georgia, Pennsylvania e Michigan), ha rivelato che la ‘guerra’ a Gaza rappresenta una delle principali preoccupazioni politiche per la maggioranza degli elettori musulmani (61%). Inoltre, una parte significativa degli elettori si trova a dover scegliere tra due candidati percepiti come favorevoli al genocidio. (…) Un articolo apparso su Slate spiega che molti elettori opteranno per l’unica candidata che si è opposta fermamente al genocidio e all’invio di armi a Israele. ‘Sì, voteranno davvero per Jill Stein. Vivono in Michigan, Pennsylvania e altri stati chiave. Voteranno ‘per coscienza,’ anche se questo dovesse consegnare la Casa Bianca a Donald Trump’ (…) Rischiare di far vincere Trump pur di non schierarsi contro un genocidio rappresenta la quintessenza dell’autolesionismo e della decadenza morale dei partiti di centro-sinistra occidentali”. Sin qui De Vogli. Sia beninteso che il termine genocidio lo riportiamo in quanto adoperato dall’Autore che, nell’interrogarsi sulla psicologia del voto americano, rileva in questo un fattore psicologicamente determinante. Tanto importante da ribadirlo due giorni dopo (il 7 novembre) quando retoricamente si chiedeva: “I democratici non si sono resi conto che il genocidio dei bambini di Gaza sarebbe diventato anche il loro suicidio (elettorale)?” Ci pare di capire che, per schierarsi contro un genocidio, l’unica opzione avrebbe dovuto essere il voto per Jill Stein il cui programma consisteva in un elenco di buoni propositi riempiti di nulla come “stabilire una politica estera basata sulla diplomazia, sul diritto internazionale e sui diritti umani” (bello, ma in che modo?); “porre fine alle guerre esistenti, alle azioni militari, alle guerre per procura e alle guerre segrete” (ci piace, ma come?); “investire il dividendo della pace in un Green New Deal globale per prevenire il collasso climatico e costruire l’accesso universale ai bisogni umani fondamentali…” (perfetto, ma anche in questo caso non ci viene spiegata la strategia). In altre parole, Jill Stein è stata un’ottima alleata di Trump perché, si sa, a furia di andare a sinistra, si finisce con l’incontrare la destra.
E a furia di ridurre a brandelli le figure dei “dem”, colpevoli – a dire dei tanti – per il loro appoggio a Israele, ha vinto lui: the Donald. E ha vinto persino in Michigan, dove nel 2020 Biden aveva ottenuto il 50,6% contro il 47,8% di Trump. Siamo tuttavia sicuri che siano stati i voti alla “candidata contro il genocidio Jill Stein” a far vincere Trump? Nelle elezioni del 2024, Trump ha preso il 49.7%, Harris il 48,3 % e Stein lo 0,8 %. Quindi, anche se sommassimo – in modo arbitrario – i voti di Harris e di Stein, ne scaturirebbe il 49,1%, sempre meno di Trump. L’ago della bilancia per De Vogli sarebbe ciò che l’Autore chiama “il genocidio”, che può essere tale per tutti, anche per la giustizia sovranazionale, ma continuerebbe comunque a non rientrare nella Convenzione ONU sul genocidio, motivo per cui noi avremmo scelto l’uso di altri termini per analizzare il voto americano. Ma qui siamo nell’ambito delle divergenze di opinioni. Noi vediamo, in quanto sta accadendo, una terribile guerra, scatenata da due entità terroristiche, Hamas (attacco del 7 ottobre 2023) ed Hezbollah (attacco dell’8 ottobre 2023). Il tutto preceduto per un buon ventennio da continui bombardamenti e attentati vari, privi di una qualsivoglia rivendicazione, a loro sostegno, diversa dalla volontà di sopprimere lo Stato d’ Israele. Altrimenti non si spiegherebbe l’intensificarsi degli eventi ogni qualvolta la pace sembrava muovere qualche passo.
Trump è stato sottovalutato da molti. Forse lui stesso si era sottovalutato, visto il suo strillare a possibili brogli, proprio in Michigan, ad urne ancora aperte. Da alcuni è stato addirittura ritenuto un amico migliore per Israele di quanto non avrebbero potuto essere Harris e i democratici. Eppure, come scriveva Flammini sul Foglio (6 novembre): “Nessuno ha aiutato Israele quanto Biden. Il capo uscente della Casa Bianca può essere considerato il presidente più sionista della storia americana”. Intervistato da Flammini, Asaf Shariv, ex console israeliano a New York, di Trump ha detto che: “su Israele prende solo le decisioni che ritiene giuste per la politica americana. Non si può dire che non sia un amico d’Israele, ma è un’amicizia diversa, mentre tutto quello che Biden ha fatto finora lo ha fatto perché ci credeva”.
Partendo da queste riflessioni possiamo cercare di comprendere perché Harris ha perso in Michigan mentre Trump ha vinto. Per dirla sempre con Flammini, “è un affare di famiglia”. Secondo il New York Times il consuocero di Trump, Massad Boulos (il cui figlio Michael è sposato con Tiffany Trump), ha lavorato dietro le quinte, con successo, per attrarre il voto arabo ed islamico, facendo ammenda delle vecchie posizioni antislamiche del tycoon. In Libano il miliardario Massad Boulus aveva cercato di intraprendere la carriera politica, rimanendo legato a Suleiman Frangieh, un politico cristiano alleato con Hezbollah. “Boulus figlio – ci dice sempre Flammini – è stato la porta d’accesso al trumpismo. E infatti Massad è stato l’uomo chiave della campagna per conquistare il voto degli arabi e dei musulmani nel Michigan, riuscendo a presentare Trump come alternativa migliore, per gli interessi islamici in Medio Oriente, rispetto a Kamala Harris. In altre parole pare di essere quasi in presenza di una nuova Spada dell’Islam di mussoliniana memoria. Ciò significa che le simpatie di una parte del voto arabo/islamico sono andate a Trump, ritenuto non incompatibile coi loro desiderata.
Lo schema delineato da De Vogli e da altri illustri commentatori non ci sembra abbia pertanto trovato riscontro negli esiti elettorali, dimostrando che fra la narrazione o la visione della sinistra occidentale e la realtà mediorientale vi è una decisiva cesura. Sarebbe quindi opportuno un mutamento di modello, che eviti di far coincidere certi schemi con il teatro mediorientale. Presentare Israele come aggressore colonialista, disattendere le analisi di Ernesto Galli della Loggia sulla natura religiosa del conflitto, sono metodi che non agevolano il cammino verso una di per sé difficilissima pace, ma lo ostacolano.
Analogamente dovrebbe fare il centrodestra nelle sue analisi, evitando di applicare gli schemi politici italiani agli USA. Harris non equivaleva all’abbandono d’Israele, così come Trump non implica la certezza di una vicinanza al popolo ebraico. Soprattutto non si possono trascurare il ruolo svolto dall’Iran, una dittatura che cosparge di lutti non solo all’interno, ma finanche in aree lontane come l’Argentina; e quello svolto dalla Russia che, attraverso Hezbollah, arma gli Houthi, i quali colpiscono Israele. Il mondo può essere visto in modi molteplici, ma certamente non è leggibile attraverso le lenti della nostra ideologia e men che meno attraverso quelle del manicheismo.
Quanto all’asserita decadenza morale dell’Occidente, che non si schiererebbe contro un genocidio, nella misura in cui l’unico popolo che rischia di sparire nell’area è il popolo ebraico, se fosse esatto che l’Occidente appoggia Israele, si potrebbe affermare senza esitazione che esso si schiera contro un genocidio.