di Rav Giuseppe Laras
Oggi è il 10 di Tevèt, giornata di afflizione, digiuno e riflessione per ognuna e ognuno di noi. Come è noto, questo digiuno è legato all’assedio di Yerushalaim da parte del malvagio re Nevukhadnetzàr (Nabucodonosor), che causò alla santa città e ai suoi abitanti sofferenze e ristrettezze e che fu principio e premessa della sua caduta. In questo stesso giorno ricordiamo anche i martiri della Shoah.
Tutti noi abbiamo ancora negli occhi e nei cuori le luci di Hanukkhah che, al contrario, ricordano eventi positivi e miracolosi: la consacrazione del Santuario e l’opposizione vittoriosa a un nemico esterno e a tentazioni interne. Hanukkah, poi, è una festa cara al Sionismo, perché associata in qualche modo alla rinascita della nostra sovranità nazionale nella Terra dei Padri, che alacremente si stava preparando e strutturando già da lungo tempo prima del 14 maggio 1948. La rinascita di Israele è stata ed è una delle migliori risposte ai nazisti, ai fascisti, agli antisemiti di ieri, di oggi e di domani, come pure al Muftì e allo jihadismo. Non è certo l’unica risposta, ma senza questa – e questa specificatamente – le altre perdono senso e slancio, svanendo come neve al sole.
Il segreto di Hanukkhah è il mistero insondabile del “poco”, della tenacia e dell’ingegno propositivo di questo “poco”, dell’amore per il futuro di questo “poco”, dell’investimento coraggioso e carico di speranza da parte di un “poco” provato e addolorato, che vuole vivere e che dona vita. Poco olio fu acceso, nonostante tutto e tutti, e perdurò. Pochi ebrei, nonostante tutto e tutti (ivi inclusi moltissimi correligionari), resistettero alle vessazioni e alle allettanti prospettive dell’epoca di Antioco, e vinsero. Pochi ebrei, nonostante tutto e tutti (ivi inclusi moltissimi correligionari), hanno sperato, pensato, voluto, realizzato, curato e difeso Israele, che oggi coincide con la speranza degli ebrei di tutto il mondo e che assurge, pur tra mille enormi problemi, gravi ritardi e dolorose incongruenze, alla speranza ebraica per il mondo.
Concentrarci sul 10 di Tevét, dopo l’eccitazione commossa e grata di Hanukkhah, è difficile. Idolatria, disprezzo e odio fraterno causarono, in epoche diverse, la rovina della Sua Casa Eletta e la nostra amara dispersione. Idolatria, anche sottoforma di assimilazione; disprezzo e odio fraterno, anche sottoforma di vita religiosa erronea: ossia astio per l’osservanza e derisione per i contenuti e i valori da quest’ultima veicolati in nome di chissà quali edulcorati pensieri magnifici, progressivi ed emancipati, come pure, per converso, gelido esclusivismo e durezza di sentimenti da parte di osservanti troppo compiaciuti di sé, trincerati aggressivamente nelle loro posizioni e cupamente risentiti con tutti gli altri.
In ogni generazione, anche in Italia, tutti noi, da prospettive diverse, possiamo – e dobbiamo! – scegliere tra le azioni che portarono a Hanukkhah e quelle che portarono al 10 di Tevét.
Proprio in relazione all’ebraismo italiano, mi permetto, spinto da tormenti, silenzi e riflessioni, di inviarvi queste mie considerazioni, chiedendovi di leggerle e meditarle, riprendendo e sviluppando quanto scrissi a Rosh ha-Shanah.
Come già feci presente, la nostra Golah italiana, dopo un cammino glorioso e faticoso, sembra destinata rapidamente a ridimensionarsi, prendendo un assetto per lo più inedito. Molte nostre piccole e medie Comunità nei prossimi decenni, ma in alcuni casi anche ben prima, andranno cioè dissolvendosi.
Che ci piaccia o no, sappiamo tutti che la natalità è tristemente bassa; che il rovinoso dramma dei matrimoni misti, assieme a tutto ciò che ne consegue, ha decimato le nostre Comunità; che l’età media è sempre più alta. Purtroppo non si tratta di cupi spettri, ma di solide realtà. In molte nostre kehilloth, c’è sì un presente ebraico – talora solo “formalmente” ebraico -, ove osservanza, studio della Torah e identità ebraica sono labili, ma è spesso difficile scorgere un futuro concreto, in alcuni casi comunitari anche abbastanza prossimo.
Tutto questo esiste e troppo raramente ci riflettiamo, lo portiamo a parola, lo affrontiamo. Questo assordante silenzio sul reale, la cui sola “lettura” spesso ci rifiutiamo di fare e di assumere proprio noi che abbiamo avuto o abbiamo responsabilità per gli ebrei di Italia e per il futuro dell’ebraismo italiano, ha reso sempre più macroscopico il problema, fugando, oltre all’analisi, molte possibilità di cura o, se non altro, di efficace manovra.
Il motivo di questo silenzio lo conosco bene e intimamente ed è, nella maggior parte dei casi, duplice e con le sue ragioni: fa male leggere questa realtà e si ha paura di deprimere ancora di più quegli animi che, invece, si vorrebbero rinfrancare.
Per supplire a tutto ciò e per sublimarlo, abbiamo dato sfogo a diverse “narrazioni identitarie” dell’ebraismo, dirette per lo più al mondo non ebraico circostante e quindi, almeno in parte, “deformate” rispetto al reale.
Ci siamo così riempiti la bocca di “cultura ebraica”, quasi mai di Torah o di Popolo Ebraico o di Terra di Israele (in questi due ultimi casi spesso con disastrose titubanze e con timori di ottocentesca memoria). In larga misura era un iter inevitabile, insufficiente a contrastare la consunzione e l’assimilazione di molte antiche e gloriose Comunità italiane.
Molte responsabilità sono da attribuirsi spesso a consigli freddamente laici e impreparati – talvolta politicamente orientati -, che per decenni hanno governato e rappresentato noi tutti. Molte responsabilità sono da imputarsi anche ai rabbini -tuttavia non perché, come alcuni stoltamente vogliono far credere, si tratti di rabbini ortodossi! Anzi, questo fatto è stato una delle poche e (seppur difficili) migliori ancore di salvezza-.
Credo che molta gratitudine debba comunque essere espressa ai rabbini italiani, i quali, pur con tutti i loro molti limiti, scelgono spesso di vivere, servendole, in piccole e medie Comunità invecchiate e agonizzanti, in cui i pochi giovani si allontanano assimilandosi o – quando va bene! – emigrando, in cui lo studio e le possibilità stesse di insegnamento languiscono.
Questa è vita rabbinica “di frontiera”, appesantita dall’essere destinata all’incomprensione da parte di taluni sterili ed esasperanti “religiosi con la penna rossa” come pure da parte di molti, troppi, anacronistici “ebrei laici”, ideologicamente infastiditi dalle richieste e dai “no” dei rabbini, che si vorrebbero peraltro oggi addomesticati ad hoc con contratti che li rendano “dipendenti” e ricattabili nelle loro decisioni quando necessariamente scomode e sofferte.
Pur con tutti i nostri limiti, noi rabbini siamo gli unici che abbiamo ben chiaro, vivendolo ogni giorno sulla pelle nostra e delle nostre famiglie, il polso dell’ebraismo italiano contemporaneo.
Tutto questo è oggi il nostro 10 di Tevét, inclusa, come già scrissi, la indebita riduzione dell’ebraismo italiano a “shoaismo” e a presenzialismo a pubbliche cerimonie di varia natura da parte di alcuni di noi. E l’antisemitismo è montante…
Saremo in grado di portare nell’ebraismo italiano e nelle vite di tutti noi le attese luci di Hanukkhah? Questa è la domanda, per la giornata odierna, per ciascuno di noi.
Vorrei offrire delle piste per rispondervi positivamente.
Oggi in Israele vivono numerose migliaia di ebrei italiani e l’attuale alyah dall’Italia è la più numerosa e massiccia dagli anni della Seconda Guerra Mondiale. Quest’ultimo dato esprime un evidente disagio esperito da molti di noi. Soprattutto, grazie a Dio, esprime una scelta ben precisa e propositiva da parte di molti di noi, specie tra i nostri giovani. Entrambe queste realtà vanno assunte e prese finalmente sul serio.
In Israele, cioè, vi sono almeno 10.000 ebrei italiani e più (destinati a crescere con le alyòth) a fronte dei circa 24.000 viventi in Italia, con però un’età media significativamente assai più giovane.
Il ridimensionamento di una diaspora può essere – ed è – in parte un fatto amaro. Tuttavia, da un’altra e forse più esatta prospettiva, si tratta di un fatto “unico”. Si tratta dei prodromi del Kibbutz Galuyòth, della riunione degli esili. Il Santo e Benedetto, in queste generazioni, ci ha benedetto con il ritorno in Terra di Israele. Come tutte le benedizioni che Dio ha riservato e riserva al nostro Popolo, la Terra di Israele, al pari della Torah, è complicata ed esigente, richiede fatica, sforzo, difficoltà. Come lo studio della Torah è faticoso e, al contempo, fonte di gioia, parimenti Eretz Israel, dissodata dal sudore di mani amorevoli, è tornata dolce e ubertosa, nonostante le molte minacce che la attanagliano.
Per quanto riguarda la Diaspora italiana, il presente suo parziale riassorbimento avviene fortunatamente in condizioni che rendono possibili, con ancora ampi margini di manovra, serie progettualità sull’alyah che molti compiranno, come pure – di pari passo – svolte sulle modalità di permanenza in essere dell’ebraismo diasporico italiano in Italia. Non ci sta fortunatamente accadendo quello che in anni recenti è occorso ai nostri fratelli in molti Paesi islamici, ove la terra ha iniziato a bruciare sotto i loro piedi, perseguitati da aguzzini e omicidi.
Si impongono, allora, con urgenza, riflessioni e progettualità su come salvare il nostro futuro, ossia su come consegnare al futuro – e non unicamente ai musei – l’ebraismo italiano.
È chiaro che molte responsabilità graveranno, come mai prima d’ora, sui prossimi Consigli dell’Unione delle Comunità, nonostante possano apparire talvolta strumenti spuntati. Il prossimo Consiglio e quelli a venire sentiranno su di loro tutto il peso della nostra storia e si spera che possano imprimere una svolta netta. Si dovranno compiere meno errori o dilazioni temporali possibili. Occorre cioè che si chieda alle persone elette di prendere nelle loro mani il futuro – e non il passato! – degli ebrei di Italia e dell’ebraismo italiano.
Occorrerà in primo luogo che si taglino tante spese inutili e che, inoltre, i responsabili delle Comunità facciano molta, molta attenzione ai soldi e ai beni ebraici che amministrano, sì che non capitino più vicende disastrose e deleterie come quanto verificatosi, per esempio, a Milano – esistono responsabilità morali e religiose anche in questo, anche e soprattutto in vigilando, specie quando, assieme ai soldi, si dissipa il capitale di fiducia degli ebrei nelle nostre Istituzioni – o a Roma e non solo.
I molti soldi risparmiati vengano quindi investiti nelle nostre scuole, ossia nel nostro unico vero futuro. Occorrerà che i nostri ragazzi, al termine del loro ciclo di studi, possiedano realmente un eccellente ebraico e una conoscenza buona e solida della Torah e del Talmùd, dei testi tradizionali, della storia e del pensiero ebraici, del Sionismo. Dobbiamo rimediare ai nostri errori! È dunque quanto mai necessaria da parte delle nostre Istituzioni e delle nostre dirigenze un’urgente svolta educativa. Sarà opportuno, come so che già si tenta in parte di fare, potenziare al massimo gli scambi con le scuole ebraiche più autorevoli del Canada, degli Stati Uniti o di Israele, affinché questi ragazzi – il nostro futuro – possano conoscere realtà ebraiche altre rispetto alle nostre dove eventualmente recarsi, qualora la consunzione di alcune diventi difficilmente sostenibile, subentrino ulteriori difficoltà lavorative in Italia o l’antisemitismo antisionista, con tutto il suo discredito morale ed esistenziale, diventi opprimente e insopportabile (dato che, come sappiamo, siamo purtroppo solo agli inizi e, per molti versi, ben lontani dal saperlo fronteggiare). Occorre, cioè, proporre loro delle alternative valide, concrete e praticabili all’assimilazione.
Occorrerà poi creare opinione e attivare politiche economiche interne di sostegno da parte delle nostre Comunità per svincolare il più possibile gli ebrei italiani e le loro sorti dalla crescita demografica “zero” della società circostante.
Occorre, poi, in particolare, – e lo scrivo con emozione – che il nostro glorioso Collegio Rabbinico Italiano, in qualche modo apra finalmente i suoi battenti anche in Israele. Se vi sono, come vi sono, molte migliaia di ebrei italiani in Israele è giusto e doveroso che la Torah degli ebrei di Italia – la nostra tradizione interpretativa e halakhica – parli loro in ebraico oggi, così che si possa restituire all’ebraismo mondiale – questa la grande sfida e la grande ambizione – la straordinaria e preziosa avventura di emunah e di chochmah dell’ebraismo italiano nei vari ambiti in cui esso si è espresso; che non siano unicamente i libri a parlare, ma gli ebrei italiani oggi e domani viventi.
Molti italqìm si sono già da anni (e oggi non pochi giovani) industriati con attaccamento, zelo ed entusiasmo per creare minianim italiani in varie città di Israele. Dobbiamo molto essere grati a tutte queste persone, che ci hanno dato una grande lezione e che ci stanno additando una speranza per il futuro.
È giunta l’ora, non più rimandabile da parte nostra, per cui tra noi e loro si crei una sinergia intensa e continua per la programmatica edificazione di un nuovo corso, vitale e fecondo, per l’ebraismo italiano e le sue istituzioni, sia per la diaspora italiana sia per gli italqìm stessi in Israele. Per quanto ad alcuni possa sembrare remoto ed astruso, questo passa anche e significativamente attraverso la formazione dei futuri rabbini italiani (od operanti in Italia). E oggi ciò passa, in maniera imprescindibile, anche da Israele.
Si tratta – me ne rendo ben conto – di scelte di campo e di investimenti sensibili a breve, medio e lungo termine.
Se la Yeshivah di Ponevez, come altre accademie chassidiche o lituane, è sopravvissuta è perché oggi essa vive in Israele. Se, in un certo senso, la Lituania e la Polonia ebraiche ancora sopravvivono, lo è anche perché molte yeshivòth si sono trasferite in Israele. Parimenti, senza lo spettro dell’annientamento, molti centri Modern Orthodox (quelli di Rav A. Lichtenstein z.l., di Rav D. Hartmann z.l., di Rav S. Riskin shlita e altri ancora) esistono e prosperano in Israele. Lo stesso accade per il mondo Lubavitch (che tanto ha beneficato l’ebraismo italiano e che tanti ebrei ha “salvato”), giusto per fare un esempio chassidico a noi tutti vicino e familiare. E che dire delle case di studio dei Sefarditi di Oriente? O della yeshivah di Rav A. Steinsaltz shlita, a sua volta chassìd Chabàd?
Questo è un necessario obiettivo anche per l’ebraismo italiano, con la salvaguardia e la promozione delle sue specificità.
Dobbiamo iniziare anche noi italiani a pensare in modo nuovo. Queste sono le grandi scommesse e le grandi tematiche di cui tutti noi oggi dobbiamo riappropriarci, adoperandoci fattivamente e con solerzia.
Questa sarà la nostra Hanukkhah!
Sono cosciente che tutto questo per molti possa aver dell’incredibile. E parimenti so bene che si tratta di una rivoluzione copernicana, comportante difficoltà enormi, anche solo ad assumerla e a pensarla. Sono altresì cosciente, infine, che molte di queste cose avrei e avremmo dovute dirle forse anche tempo prima. Ma né noi né i tempi eravamo pronti, e ancora oggi è difficile farlo.
‘Anenu, HaShem, ‘anenu! Esaudiscici, Signore, esaudiscici!
Rav Prof. Giuseppe Laras
Av Beth Din