No-Vax e Shoah, un senso di sacrilegio. Una “confusione” inaccettabile, un’offesa per chi non è tornato

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie]  Non ci si può stupire più di tanto se il cosiddetto movimento “no vax” – che raccoglie in sé molte anime, accomunate dall’essersi riconosciute dentro la cornice della tracotanza che deriva dal loro smarrimento esistenziale – imperversi nell’utilizzazione offensiva delle immagini, così come dei rimandi, alla Shoah. Nella rincorsa a definirsi vittime di qualcosa, ovvero di qualcuno, gli antivaccinisti si sono rivelati degli scaltri e indecorosi professionisti. Di uno squallore senza pari. In Italia come in Europa. Hanno ben presto capito, infatti, che il rivestirsi, come se si trattasse di un involucro inattaccabile, dei panni di novelli perseguitati (con tutto il corredo di rimandi alle peggiori nefandezze della storia recente), possa costituire una moneta pagante. Lo hanno fatto, sicuramente, con spontanea sicumera. La qual cosa nulla toglie all’esecrabilità dei loro accostamenti. Anzi, semmai ne peggiora i moventi e le motivazioni. E tuttavia, per risparmiarci il solo ludibrio morale fine a se stesso, rimane per noi l’interrogativo sulle ragioni per le quali tali figuri, francamente lugubri oltre che intollerabili, agiscano in un certo modo. Perseverandovi. Ovvero, defraudando l’umanità del vero significato del male, quello totale, radicale, non risarcibile. Poiché la Shoah rimane il suggello di una tale condizione non (solo) in quanto accaduta agli ebrei, le vittime, ma soprattutto per essere stata posta in essere da carnefici che appartengono alla nostra modernità.

Trattandosi quindi di una tragica caccia, tra gatti e topi (qualcuno ricorda il mirabile Maus di Art Spiegelman?), che sono tali non solo per le loro sembianze animali ma, innanzitutto, per il comune ambiente nel quale, fino ad un certo momento delle loro esistenze, hanno cercato di convivere. L’umanità altrui che si trasforma in ferina bestialità, quindi in rigetto e rifiuto totali, è quanto di più incommensurabile possa capitare, ad ognuno di noi, nell’esperienza della vita che andiamo facendo ogni giorno. Alla mano misericordiosa negataci nel momento del bisogno, corrisponde infatti la nostra non risarcibile solitudine. Quella di espulsi dal consesso umano. Succede quando scopriamo che quel minimo di reciprocità solidale, sulla quale riteniamo di potere contare, viene invece cancellata da qualsiasi orizzonte. La Shoah non è intangibile, in quanto è un evento storico. Necessita semmai di essere costantemente studiata, compresa, metabolizzata. Ci ha quindi consegnato un tracciato civile. Per noi non può ridursi a solo racconto di morte. Anche per questo, non essendo narrazione sacrale ma resoconto umano, non può essere in alcun modo sporcata da accostamenti improvvidi.

Non abbiamo una memoria particolarista, di gruppo, da difendere quando parliamo del crepaccio che ha ingoiato donne e uomini per cancellarne corpi e, soprattutto, memorie. Non si tratta, in altre parole, di un esercizio di primazia. In quanto in quel crepaccio è caduta, a suo tempo, l’intera Europa. Fatta di vittime (ma anche di carnefici, così come di tanti imbelli spettatori). Proprio per una tale ragione, in fondo, tutto ciò ci inquieta. Ancora di più quando invece capita che ci sia chi cerchi di appropriarsi di un tale tragico passato per farlo proprio. A proprio esclusivo beneficio.

Non si tratta solo di un furto, comunque atto del tutto illecito. Si è semmai dinnanzi a una profanazione. Non di un totem sacrale. In una società che voglia essere laica, infatti, il passato non è edificazione di tabù ma esercizio di comunicazione. Chi pontifica e ricama – feroce, barbaro ma anche gratificato e compiaciuto – sul proprio piagnucoloso vittimismo, quando invece è solo un ottuso beota, non sputa su di noi, donne e uomini di questo tempo, ma su quel passato che manipola a suo uso e consumo. Non sta quindi offendendo i vivi bensì i morti. La qual cosa, per capirci, è il massimo sacrilegio che possa arrecarsi alla coesione sociale, senza la quale non esiste alcuna possibilità di vita consapevole e realizzata. In quanto è esistenza non solo il “qui e ora” ma il senso della continuità tra generazioni, storie e quindi individualità.