di Roberto Zadik
Pubblichiamo di seguito una lettera di Rav Jonathan Sacks, già Rabbino Capo del Commonwealth, uscita il 1 settembre sul sito www.jewishpress.com.
Il 14 ottobre 1663 il famoso biografo Samuel Pepys visitò le sinagoghe spagnola e portoghese nel quartiere di Creechurch Lane, una zona di Londra. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Inghilterra nel 1290, ma nel 1656, grazie all’intercessione di Rabbi Menasseh Ben Israel di Amsterdam, Oliver Cronwell ha affermato che non ci sarebbe stato nessun ostacolo alla permanenza degli ebrei nel Regno Unito. Così per la prima volta dal tredicesimo secolo in poi, agli ebrei, venne concesso di praticare apertamente la loro fede religiosa.
Così la prima sinagoga che Pepys nel suo viaggio visitò quella che era semplicemente una casa privata e non una vera sinagoga, che apparteneva a un ricco mercante ebreo portoghese, di nome Antonio Fernandez Carvajal che aveva ampliato la sua dimora trasformandola in un luogo di culto per la comunità. Pepys era stato nella sinagoga tempo prima, alla preghiera in memoria di Carvajal che era morto nel 1659 e che si era tenuta con un rito sobrio e rigoroso. Diversamente da allora quello che vide quando ci tornò per la seconda volta lo lasciò scandalizzato. Questa fu la sua testimonianza di quella celebrazione pubblicata soul suo diario: “Dopo cena” scrive Pepys, ” io e mia moglie siamo andati assieme al Signor Rawlinson alla Sinagoga, dove uomini e ragazzi vestiti coi loro mantelli, i tallitot, e le donne al riparo dalla nostra vista, cantavano e piangendo dicendo Amen baciando i mantelli. Tutto questo avveniva in un’ atmosfera caotica, disordinata e irrispettosa dell’occasione religiosa, dove la gente rideva, chiacchierava e si agitava”.
Il povero Pepys era assolutamente sconvolto da questa scena. Nessuno, però, gli disse che non si trattava di una giornata normale ma della festa di Simcha Torah. Nessuno aveva mai visto in una casa un’esuberanza del genere, quando nella tradizione ebraica, quel giorno tutti noi balliamo con in braccio il Sefer Torah adottando lo stesso trasporto emotivo di quando Re Davide portò l’Arca Santa a Gerusalemme.
La gioia non è la prima parola evocata nelle nostre menti quando pensiamo al rigore dell’ebraismo come codice morale e alle tristi pagine della storia ebraica. In quanto ebrei noi abbiamo un primato in materia di sofferenza, diplomi straordinari in senso di colpa e medaglie d’oro in lamentazioni e compianti. Qualcuno, una volta aveva riassunto le feste ebraiche, in tre frasi: “Hanno cercato di ucciderci, siamo sopravvissuti, ora mangiamo!”. In verità dietro la sofferenza, quello che brilla nei Salmi è un senso di grande gioia ed essa è una delle parole chiave del libro della Torah di Devarim e la radice della parola “simchà” appare una volta in ogni libro, Genesi, Esodo e Levitico ma ben 12 volte in Devarim, sette delle quali nella nostra parashà.
Quello che Mosè continuò a ripetere più volte è che noi dovremmo essere pervasi di gioia in Israele, la Terra che Dio ha dato al popolo ebraico, il posto che rappresenta l’intera vita ebraica da quando Avraham e Sarah sono stati in viaggio. “Lì è il posto che Dio ha scelto come vostro luogo per mettervi il Suo nome e abitarVi” (Deuteronomio 12:5), celebrerete l’amore fra un piccolo e insignificante popolo e Dio che li ha scelti per Sua volontà portandoli alla grandezza”. Sarà proprio in quel luogo, disse Mosè, che l’intera narrazione della storia ebraica diventerà chiara per tutti, nel luogo dove “tu, i tuoi figli e le tue figlie, i tuoi servi maschi e femmine, canterete, celebrerete le feste apprendendo che la storia non consiste in un impero o in una conquista ma in una eredità e in un potere comune dove tutti, re, sacerdoti e popolo sono uguali al cospetto Divino, tutte le voci nel suo santo coro, i danzatori nel cerchio che ballano nel loto centro che è la luce di Dio. In questo consiste il patto, la trasformazione della condizione umana in quella che il grande poeta romantico inglese Wordsworth definì “il profondo potere della gioia”.
La felicità, in greco antico eudaemonia disse Aristotele è la ragione ultima dell’esistenza umana. Noi desideriamo molte cose, ma solitamente ci riferiamo a qualcos’altro che ci manca. Solo qualcosa che desideriamo veramente per quello che è senza volere qualcosa di altro è la vera felicità e questo sentimento riguarda anche l’ebraismo. La parola Ashrei è l’inizio del libro dei Salmi e una parola di centrale importanza nelle nostre preghiere quotidiane. A questo proposito, il Tanach, tratta della gioia, la simcha, diversa dalla felicità. La felicità è qualcosa che puoi sentire individualmente mentre la gioia, nel testo biblico, è qualcosa da condividere col prossimo.
Per il primo anno di matrimonio, come ci insegna il libro della Torah di Devarim, Deuteronomio, 24:5, “un marito deve stare a casa e dare gioia alla donna che ha sposato”. Portando le primizie e i nuovi frutti al tempio, come dice la Torah in un altro punto, “Tu e il Levita e lo straniero che risiede fra di voi, dovrete gioire di tutte le cose buone che Dio ha dato a voi e alla vostra casa” (26:11). Nel libro di Devarim la gioia è dunque molto presente e in uno dei suoi versi più belli, Mosè dice che le maledizioni si abbatteranno sulla nazione non perché abbiamo commesso idolatria o abbandonato Dio ma “perché non l’hanno servito con Gioia e felicità per tutte l’abbondanza che li ha dato”. La mancanza di gioia è il primo segno di decadenza e di sconfitta.
La felicità e la gioia sono molto diverse per tanti aspetti, la prima riguarda una vita intera mentre la gioia invece vive in singoli momenti. La felicità tende a essere un’emozione più fredda e razionale mentre la gioia ti spinge a ballare e a cantare. E’ difficile sentirsi felici in mezzo alle incertezze ma è possibile sentire la gioia. Re David nei Salmi parla di pericolo, paura, a volte anche disperazione ma queste sue poesie solitamente finiscono positivamente. “Perché la Sua rabbia dura solo un momento mentre il Suo favore, Divino, dura una vita intera. Puoi passare una notte piangendo e svegliarti gioiosamente la mattina. Trasformi il tuo pianto in una danza, hai rimosso il mio vestito di sacco e mi hai vestito di gioia, affinchè il mio cuore possa cantare le Tue lodi e non restare in silenzio. Signore mio Dio, ti loderò per sempre”. (Salmo 30:6-13).
Nell’ebraismo, dunque, la gioia è la massima emozione religiosa e siamo qui in un mondo pieno di bellezza. Ogni respiro che respiriamo è lo spirito di Dio in mezzo a noi. Intorno a noi è l’amore che muove il sole e le stelle, siamo qui perché qualcuno ha voluto che fossimo qui. L’anima celebra questo e canta. Nonostante la vita sia piena di problemi, difficoltà, problemi e dispiaceri noi viviamo qualcosa di straordinario in un universo pieno di bellezza fra gente che portano su di se tracce sul volto di Dio. Lo scrittore Robert Louis Stevenson diceva “Cerca dove risiede la gioia e dalle una voce da dove possa cantare. Perché se manca la gioia manca tutto”. L’ebraismo, la fede, non è una rivale della scienza, è un tentativo di spiegare l’universo. C’è un senso di meraviglia, nato da un senso di gratitudine. L’ebraismo è prendere la vita da entrambe le mani e dare una benedizione su di essa. Se è come Dio ci ha detto: Ho fatto tutto questo per voi, questo è il mio regalo, goditelo e aiuta il prossimo a fare lo stesso.
Ovunque tu possa, guarisci qualcuno dal dolore che la gente si infligge a vicenda o dai dolori naturali dei quali è vittima la carne dell’uomo. Dolore, tristezza, rabbia, risentimento, invidia, paura: queste sono le cose che oscurano la vostra visione e separano l’uomo da Dio. Una volta il filosofo danese Soren Kierkegaard ha scritto: “Ci vuole coraggio religioso per gioire”. Io credo questo con tutto il mio cuore, così sono commosso dalle maniere in cui gli ebrei, che sanno cosa sia camminare all’ombra della morte, vedano ancora oggi la gioia come emozione suprema.
Ogni giorno cominciamo le nostre preghiere mattutine con una lista di ringraziamenti, per essere ancora qui, per il mondo in cui viviamo con famiglia e amici da amare e per essere amati da loro, riguardo alla possibilità di cominciare una nuova giornata piena di occasioni in cui attraverso atti di bontà e di gentilezza permettiamo a Dio di manifestare la sua presenza attraverso di noi nelle vita degli altri. La gioia aiuta a guarirci dalle ferite del mondo.