di Rav Prof. Giuseppe Laras
In occasione della visita di papa Francesco alla Sinagoga di Roma il 17 gennaio, pubblichiamo un’interessante riflessione di Rav Giuseppe Laras sul Dialogo Ebraico Cristiano che, seppure sia del 2014, rimane molto attuale.
Un incontro serio, schietto e intenso tra ebrei e cristiani può essere potenzialmente straordinario e da esso potranno uscire idee ed energie nuove che sosterranno questo nostro cammino insieme, in atto già da alcuni decenni, anche se, talvolta, appare fermo o quasi fermo.
Uno dei rischi infatti inerenti al Dialogo è quello di arrestarsi, senza più dare segni di vita. Quando ciò può avvenire? Quando -Dio non voglia- il dialogo tra noi potrebbe dirsi irrimediabilmente arrestato? Qualora ci si convinca che non abbiamo più nulla da dirci e che è quindi inutile e stanchevole insistere a ispirarci, servendoci della forza fecondatrice della nostra parola umana: una parola che, in talune circostanze, è a similitudine (solo a similitudine!), di una Parola ben più alta, penetrante ed eterna. Tale parola è in grado di sviluppare da sé un potenziale di energia e creatività inimmaginabili.
La parola ci è stata data per comunicare tra noi, per educare e per sanare. La parola ha in sé un potenziale dialogico finalizzato a collegare e dunque a costruire, e non a demolire, come avvenne invece nel caso di Caino, ove la Torah (Gen. IV,8), di proposito tace sul tipo di parole che Caino rivolse a suo fratello Abele: sicuramente parole veicolanti minacce e morte, non amore fraterno. Non dobbiamo perdere mai la fiducia nei confronti del dialogo, cioè nella forza buona insita nella nostra e nell’altrui parola.
Il problema oggi, tuttavia, non sembrerebbe essere la difficoltà a dialogare tra noi. I problemi, invece, potrebbero essere altri, come l’amara constatazione che il dialogo ebraico-cristiano coinvolga pochissimi giovani, soffrendo spesso di gerontocrazia, oppure che il dialogo ebraico cristiano sia spesso rimasto un fatto eccessivamente elitario -un prodotto di nicchia, come si direbbe oggi-, ove le persone coinvolte sono comunque ancora poche, talvolta preoccupate di evitare, da parte ebraica, di essere convertite, da parte cristiana, di stringere un legame eccessivamente stretto -sia per motivazioni teologiche sia per motivazioni politiche- con chi sino a pochi decenni fa era avvertito come un “peccatore accecato” da redimere.
Sottolineo, però, che tali sentimenti di paura sono oggi assai meno presenti di un tempo, e ciò grazie al procedere sempre più consapevole e maturo del Dialogo che, pur tra molte difficolta, fa autonomamente giustizia di buona parte di tali paure e di tali preoccupazioni.
Le problematicità che oggi sembrano più verosimilmente rallentare il nostro cammino comune sono connesse con due tematiche drammatiche, però imprescindibili, che hanno coinvolto e coinvolgono la realtà fisica e spirituale del popolo di Israele: I. la Shoah, con il suo bagaglio di disperazione e di morte; II. il germogliare e il consolidarsi del III risorgimento nazionale ebraico nella Terra dei Padri.
Tali tematiche coinvolgono fino nei recessi più profondi e intimi dell’anima, checché ne dica qualcuno del nostro stesso popolo, la vita e l’anima di ogni figlia e di ogni figlio di Israele, sia consciamente sia inconsciamente.
Ebbene, non dimentichiamoci che è proprio dalla presa di coscienza della mostruosità della Shoah che possono derivare paradossalmente tensioni e imbarazzi. Ed è comprensibile che ciò possa accadere, troppi secoli risultando insanguinati da violenze antiebraiche di ogni genere da parte cristiana. Non dimentichiamoci, in proposito, la figura dignitosa e coraggiosa di Jules Isaac, allorché decise di portare la Shoah all’interno delle mura vaticane, alla diretta attenzione di Giovanni XXIII, il quale, assieme al suo lungimirante successore –il grande Paolo VI-, sottopose al Concilio Vaticano II un pronunciamento della Chiesa sull’antisemitismo e sui rapporti con l’ebraismo.
E l’antisemitismo, oggi quotidianamente riaffiorante con virulenza, è il comune denominatore soggiacente sia alla Shoah sia all’avversione di alcuni, ivi inclusi non pochi cristiani, alla presenza rinnovata di Israele nella Terra dei Padri.
Per affrontare il tema che mi è stato affidato, vorrei scandagliare alcune tra le principali motivazioni rinvenibili nei pronunciamenti di insigni autorità rabbiniche contemporanee per permettere il dialogo ebraico-cristiano.
I. In primo luogo, per contrastare e fattivamente combattere l’antisemitismo.
Come tutti sappiamo l’antisemitismo ha per secoli affondato le proprie radici in seno al cristianesimo. Sino al Concilio Vaticano II non erano esistiti, nei confronti degli ebrei, da parte della Chiesa, né il dialogo né il rispetto, ma piuttosto sono perdurati per molti secoli l’insegnamento del disprezzo, l’odio, la teologia della sostituzione, la presentazione caricaturale negativa, sfiorante la demonizzazione, di Israele.
L’antisemitismo cristiano con l’avvento dell’Illuminismo francese, si è poi, per così dire, emancipato rispetto alla sua origine religiosa, laicizzandosi e laicizzando gli originali pregiudizi teologici.
La guarigione delle Chiese da questo male, che oltre ad aver massacrato Israele ha sfigurato al contempo la loro alta dignità, nella storia sacra di ebraismo e cristianesimo, ha dunque lo scopo religioso di sanare molte ferite e di contribuire a redimere il passato. Infine, la condanna dell’antisemitismo da parte delle Chiese potrebbe contribuire nel sanare l’antisemitismo contemporaneo non religioso, solo apparentemente così distante dalla sua antica origine.
Su questo tema, così attuale e palpitante, delicato e complesso per ebrei e cristiani, ci si deve confrontare con sentimenti di verità e di amore, con l’intento cioè di costruire e non di demolire, di andare avanti e non indietro, di avvicinare e avvicinarci, e non di allontanare. Si deve essere consapevoli che l’antisemitismo può costituire una pietra di inciampo sul sentiero del dialogo, e non un elemento facilitante del medesimo. Tale problema insidioso va affrontato con competenza e grande senso di responsabilità, affidandone la trattazione a persone degne, coscienziose e competenti di entrambe le nostre Comunità.
Si parla spesso dell’asimmetria costitutiva che legherebbe ebrei e cristiani. Per il Cristianesimo incontrare positivamente Israele equivale a riconnettersi vitalmente alle proprie radici identitarie e spirituali, a definirsi, ad autocomprendersi e sentir giustificata la propria esistenza. Per secoli, tuttavia, l’attitudine delle Chiese fu diversa: il problema identitario dei cristiani rispetto alle proprie radici in Israele, si trasformò per gli ebrei in un drammatico problema di sopravvivenza.
L’ebraismo non sperimenta questa eteronomia per definire la propria identità. E, purtuttavia, l’immagine riflessa di noi stessi, offertaci dal cristianesimo, ora che non ci è nemico, credo sia destinata a interpellare positivamente noi ebrei, specie in una prospettiva di cooperazione. Al contempo, purtroppo molto più facilmente, l’incontro con il cristianesimo può divenire fonte di tensione e di contraddizione, allorché emerge la figura di Gesù di Nazareth, che –divinamente o messianicamente concepita- è confliggente con la concezione monoteistica e messianica propria di Israele. La figura di Gesù di Narazeth è destinata dunque sia a unirci sia a dividerci, rendendo il rapporto tra noi così unico e particolare, come esperiamo da entrambe le nostre pur diverse prospettive.
E, purtuttavia, persino queste stesse forti divergenze teologiche, secondo alcuni interpreti, tra cui Emmanuel Lévinas, rinviano a concetti intimamente ebraici, in qualche modo vicini cioè alla sensibilità giudaica di tutte le epoche, con tutto il vigore del loro senso spirituale. Il riferimento è, in particolare, ad assunti teologici quali la kenosi di Dio e l’umiltà della Sua presenza sulla terra.
Ma non solo questo. Nella dottrina religiosa del cristianesimo permangono nei confronti del popolo di Israele, non lievi difficoltà a definirlo e a indicarne il ruolo. Mi riferisco, a puro titolo esemplificativo, al ruolo da attribuirgli nell’economia della salvezza e all’interpretazione positiva che la Chiesa dà -o può dare- del ritorno di Israele -dopo duemila anni di esilio- nella Terra dei Padri: evento provvidenziale (visione teologica) o evento storico-contingente (visione politica)?
E qui giungiamo al secondo punto critico accennato poc’anzi, ancora concernente l’antisemitismo. Anche questo grandioso evento, alla base del quale si può o meno
vedere la mano provvidente del Signore, può diventare motivo di scontro e non di incontro.
Ma –siamo chiari e senza infingimenti!- non tanto per l’elemento provvidenziale, quanto per aspetti più particolari e contingenti legati a questioni politiche. Israele (inteso come il Popolo ebraico) è infatti oggi coincidente anche con Israele, ora inteso come la specifica realtà politico-statuale dello Stato di Israele, che lotta per salvaguardare la sopravvivenza dei propri cittadini, in un contesto generale di difficoltà, via via crescenti e condizionanti, di fronte a quanto di violento, di crudele, di efferato e di ingiusto ci è dato di vedere in quel piccolo lembo spaziale situato tra i deserti e il Mediterraneo, dove affondano le nostre comuni radici storiche e spirituali e dove avvertiamo che si giochi oggi il destino di gran parte dell’umanità.
Le rispettive posizioni appaiono spesso contrapposte e contrastanti le une dalle altre. E questo è scontato, perché in ognuno di noi, opera una congerie di sentimenti, passioni, suggestioni, pensieri che stentano a ricondursi in un giudizio di obiettività. In tale contesto, gioca un ruolo determinante e condizionante il sentimento dell’amore tra ebrei e cristiani o, viceversa, un condizionamento pregiudiziale negativo, spesso non avvertito come tale, ma che induce invece verso giudizi squilibrati nettamente severi, che inficiano, almeno in parte, il dialogo ebraico-cristiano.
Mi rendo perfettamente conto che questo per non pochi cristiani possa essere un dilemma e uno scoglio: eppure qui in definitiva si gioca oggi il reale rifiuto dell’antisemitismo, anche in Europa, anche in Italia.
II. Mishum darkhé shalom, espressione tecnica per significare la necessità imperante di promuovere una convivenza umana dignitosa e il più possibile pacifica.
È chiaro che si tratta di un obiettivo urgente e difficile, sempre e ovunque. Anche il dialogo ebraico cristiano non è sempre necessariamente facile, ma è sempre necessario e urgente.
Fra i discendenti di Abramo debbono correre sentimenti di fraternità e di amore, facendosi portatori di accoglienza verso gli altri, chiunque essi siano, da qualsiasi luogo essi provengano.
Si narra nell’antica letteratura midrashica che la tenda di Abramo aveva quattro ingressi in corrispondenza dei quattro punti cardinali: questo perché chiunque giungesse, da qualunque parte provenisse, non esperisse mai l’impossibilità di accedervi, provando conseguentemente delusione e disperazione.
Il compito dei discendenti di Abramo è chiaramente indicato nella Torah: vivere secondo tzedaqah (equità) e mishpath (diritto), cioè con onestà e giustizia, con disposizioni benevole e costruttive. In particolare, noi, ebrei e cristiani, dobbiamo oggi con solerzia predicare e testimoniare, attraverso il nostro modo di essere e di agire, l’aspetto spirituale della realtà, più sfuggente e scomodo dell’aspetto fisico-materiale, troppo spesso facilmente eletto come metro unico e esclusivo delle nostre scelte, conseguentemente ridotte e svilite. Vi è dunque anche un altro aspetto della realtà, indispensabile per un’umanità che aspiri a essere migliore e per l’edificazione di società più attente verso l’altro.
È su questo terreno che le nostre due fedi potrebbero predicare un senso della vita che vada oltre la vita. Se, infatti, la nostra prospettiva si concludesse e si infrangesse sugli scogli di questo mondo finito, potrebbe diventare molto più difficile e problematico affrontare le contraddizioni e i dolori del presente e fare sacrifici verso l’alterità.
Questa seconda ragione a sostegno del dialogo ebraico-cristiano ci rende corresponsabili nella comune sfida di umanizzazione dell’essere umano e nel vigilare attentamente in relazione al nostro presente e al nostro futuro.
III. Per scongiurare il Chillùl HaShem, ossia la profanazione del Nome di Dio dando credito e forza a idee erronee che sostengano che l’afflato religioso dell’essere umano è sinonimo di fanatismo, violenza e guerra.
Mi rifaccio qui a due responsi convergenti stilati dall’emerito Rabbino Capo Sefardita di Israele, il Rishòn le-Tziòn Rav Bakshi Doron shlita.
In relazione al dialogo ebraico-cristiano credo che questo punto si ricolleghi, utilmente approfondendolo, con il problema dell’antisemitismo, che oltre ad essere un impulso mortifero è un bà‘al, una tentazione idolatrica. Rinunziando all’antisemitismo e condannandolo, il cristianesimo -e ogni singolo cristiano- rinuncia a una tentazione idolatrica.
Al contempo, per converso, occorre ricordare che secondo i grandi Maestri di Israele (tra cui ricordo ad es. il rabbino Ya‘aqòv Emdin nel sec. XVII e il grande Rav Shimshòn Raphael Hirsch nel XIX sec.) il cristianesimo ha apportato grandi benefici spirituali e morali al mondo, contribuendo con eccezionale e provvidenziale efficacia a sradicare l’idolatria tra le genti, avvicinandole al compassionevole e benevolente Creatore del cielo e della terra, che disserrò il Mare per liberare Israele.
Per tutti, sia ebrei sia cristiani, il monoteismo non è unicamente un’acquisizione dogmatica, come tale forse statica, ma anche un percorso esistenziale e religioso delicato, in continua evoluzione. L’intelletto credente riconosce distintamente e intimamente il primato del divino, l’incomparabilità di Dio con ogni altra realtà o valore. Il monoteismo così è la grande conquista di una vita di fede, non il primo incerto passo mosso.
C’è di più. Questa spiegazione offertaci dal Rav Bakshì Doròn ci insegna qualcosa molto importante riguardo all’idolatria, pratica sommamente profanante il Nome di Dio, che invece ebrei e cristiani sono chiamati, con modalità e compiti diversi, a santificare e testimoniare. Il mondo contemporaneo, infatti, è precipitato in assordanti pratiche idolatriche, il cui nome è fanatismo religioso. Noi, ebrei e cristiani, abbiamo il dovere religioso, nobilitante e rafforzante ciò che ci affratella, di contribuire all’individuazione di questo male e di contrastarlo, senza se e senza ma, in ogni modo. Chi seppellisce vivi i bambini; chi vende le donne cristiane nei mercati, esponendole rinchiuse in gabbie; chi uccide, per poi farsi scudo attraverso i propri o gli altrui figli; chi espelle e perseguita le minoranze religiose nei propri Paesi, sostenendo di compiere tutto questo in nome di Dio è anzitutto un idolatra, prima ancora che un fanatico, un terrorista, un omicida o un empio. Egli adora un terribile bà‘al e non il Signore Iddio. Noi queste cose dobbiamo dirle, anche congiuntamente, a chiare lettere. Non è solo un dovere etico o un’esigenza politica: è un dovere religioso. L’idolatria, ricordiamolo, non è in primo luogo una questione “teoretica”, ma anzitutto una questione etica, che riguarda azioni e comportamenti.
Credo che allora, specie in questo tempo, bene possano applicarsi alla nostra comune sinergica testimonianza contro l’idolatria le parole di una sublime e celeberrima preghiera ebraica, tradizionalmente attribuita a Giosuè, che molti fanno tuttavia risalire a Abba Arechà (Rab), in Babilonia nel III secolo dell’e.v., sintetizzante la fede nel puro monoteismo e la condivisa speranza nel regno futuro di giustizia e di pace universale, che è il Regno di Dio, che recita: “A noi il dovere di lodare il Signore di ogni cosa e di esaltare il Creatore dell’universo, che non ci ha costituito simili alle nazioni idolatre né alle moltitudini delle genti, sicché la nostra parte non è come loro, poiché costoro si inchinano a idoli vani e a divinità impotenti a salvarli, mentre noi –e certamente oggi noi, ebrei e cristiani- ci inchiniamo e ci prostriamo dinanzi al Re di tutti i re, il Santo Benedetto Egli sia, a Lui che fece la volta dei cieli e fondò la terra….”
Parimenti, noi condividiamo il medesimo slancio circa la storia universale: “…che il mondo venga rigenerato sotto lo scettro dell’Onnipotente e che tutti i mortali invochino solo il Nome Tuo, che i peccatori tornino a Te, che gli abitanti dell’Universo acquistino piena coscienza della verità che da Te promana”.
IV. leagdìl Toratenu ha-qedoshah u-l-‘adirah, espressione tecnica che significa “rafforzare, innalzare e magnificare (leagdìl) la nostra Santa Torah, esaltandone ancor più la bellezza e impreziosendola (le‘adìr)”.
Questa motivazione, molto bella e molto coraggiosa, la devo all’amico rabbino Pinechas Toledano, eminente decisore rituale (poseq) sefardita europeo.
I Maestri poco fa ricordati (Emdin e Hirsch), oltre a insegnare che il cristianesimo ha contribuito a sradicare dal mondo l’idolatria, beneficando il mondo, hanno insegnato che tale fede ha addirittura rafforzato la Torah di Israele, diffondendone i principali insegnamenti tra le genti, sicché queste oggi condividono con Israele alcuni principi di fede ed etici quali la Creazione del mondo; l’esistenza dell’unico Creatore, buono e misericordioso, del cielo e della terra; la libertà –e dunque la responsabilità- dell’essere umano; il giudizio positivo in relazione all’esistente (vayàr Eloqìm ki tov, “e vide il Signore che era cosa buona” -Gn. I-); la speranza messianica e dunque un’attitudine positiva e ottimistica nei confronti della storia, dotata di un proprio senso e non affidata al caso.
Che cosa significa, in una prospettiva di dialogo ebraico-cristiano, leagdìl Toratenu ha-qedoshah u-l-‘adirah?
Il compianto e carissimo amico cardinale Carlo Maria Martini, di benedetta memoria, durante il conferimento di una laurea honoris causa presso l’Università Cattolica di Milano, così ebbe a esprimersi in relazione alla Bibbia e all’importanza educativa della Scrittura:
“…la Bibbia va considerata come il grande libro educativo dell’umanità. Lo è anzitutto come libro letterario, perché è un libro che crea un linguaggio comunicativo, narrativo e poetico, di straordinaria efficacia e bellezza. Un linguaggio che sta alla base di alcune almeno delle nostre lingue moderne europee. In particolare, penso alla lingua inglese e alla lingua tedesca, nate insieme con le grandi traduzioni bibliche; ma penso che tracce dell’influsso del linguaggio biblico sono facilmente reperibili anche nella storia della nostra lingua. Ma la Bibbia è un grande libro educativo non solo come libro letterario, ma anche come libro sapienziale, che esprime cioè la condizione umana nella sua verità, in una forma così efficace, così attraente, così incisiva, che ogni persona umana, di qualunque continente e cultura, può sentirsi specchiata almeno in qualche parte di essa. (…) La Bibbia è inoltre un grande libro educativo anche come libro storico, perché descrive le vicende di un popolo, nell’ambito di altri popoli, attraverso un cammino progressivo di liberazione, di presa di coscienza, di crescita di responsabilità del soggetto individuale, fornendo un paradigma storico, valido per l’intera storia dell’umanità. (…) Essa, infine, è un grande libro educativo perché mette al centro Dio educatore.”
Martini esprimeva un forte auspicio per il futuro dell’Europa, ovvero che la Bibbia diventi il libro del futuro dell’Europa e dell’intero pianeta, aggiungendo contestualmente che non è vera lettura della Bibbia quella che non cambia in qualche modo il cuore e la mente, lasciando l’essere umano così come è, senza scuoterlo, senza far muovere al lettore qualche passo nel superamento di sé.
Avraham Yehoshua Heschel, nel ricordare correttamente che la Torah è il destino e non unicamente la sapienza di Israele, rilevava che la Bibbia è assente dal pensiero contemporaneo, aggiungendo:
“Una radice importante del nichilismo contemporaneo è l’antica resistenza alla concezione ebraica del mondo e dell’uomo. La Bibbia ebraica ha distrutto un’illusione, l’illusione secondo la quale si può essere innocenti testimoni o spettatori di questo mondo”.
Vorrei fare un esempio per cercare di meglio far comprendere la posta in gioco. Comunemente, in larga misura probabilmente a torto, si pensa che i diritti umani universali, quelli che con tanta fatica, sofferenza e milioni di morti siamo in parte riusciti a conquistare, derivino dal diritto greco e romano, da queste culture e dalle loro successive evoluzioni.
I diritti, per come li comprendiamo noi, devono essere valevoli sempre e per tutti, ed è proprio questo che li rende, in una certa misura, universali. Ebbene, in Grecia era “uguale”, e quindi investito di diritti, solo chi era maschio, libero, greco, adulto e non necessitato a lavorare per vivere, cosa altrimenti disdicevole.
È la Bibbia ebraica, la Torah, a rivoluzionare tutto ciò. È la Bibbia ebraica a introdurre nella civiltà umana la libertà quale DNA costitutivo dell’uomo e del creato, speculare alla libertà del Creatore. È la Bibbia ebraica a sostenere che il lavoro umano rende l’essere umano simile a Dio nel creare. È la Bibbia ebraica, a porre, con la straordinaria rivoluzione introdotta dallo Shabbat, un limite al lavoro, altrimenti deleterio, rendendo l’uomo simile a Dio anche nel riposare. È con lo Shabbat che vengono inventati i “diritti umani universali”, includendo uomini, donne, stranieri, schiavi e perfino animali.
È con lo Shabbat e con i precetti biblici di aiuto ai poveri e di costruttiva solidarietà con i derelitti della società che trova fondamento la nostra idea di “welfare” e non da altre culture.
Non pochi intellettuali, compresi non pochi pensatori credenti ebrei e cristiani, hanno creduto, erroneamente, che questi valori e che queste conquiste fossero auto-evidenti e non derivanti da una storia ben precisa. Alcuni si sono rivolti al pensiero che animò per ottant’anni un’ideologia scellerata che ha portato alla morte milioni di persone, tra ebrei e cristiani.
L’erosione della conoscenza della Bibbia, non in quanto “tributo antiquario” ma piuttosto in quanto “forza creatrice e rigenerante”, è uno dei fatti più inquietanti per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini economici e politici.
Il riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell’etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l’urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante e di mediocrità. Tale contributo religioso, culturale e morale, congiunto di ebrei e cristiani, per secoli è stato negato al mondo, risultando sinora ampiamente inedito ed estremamente necessario.
Noi sentiamo che, quando Dio vorrà, le nostre strade, che si sono nel passato tanto divaricate ed allontanate l’una dall’altra, si ricongiungeranno. Questo cammino è già iniziato e, se persevereremo e investiremo in esso, compiendo con l’aiuto di HaShem il tanto lavoro che ci attende, servendoLo entrambi spalla a spalla, dimoreremo alla Sua presenza.
Noi non sappiamo quando questo avverrà, ma avvertiamo che avverrà; e sentiamo che il raggiungimento di questa meta sarà facilitato e assecondato nella misura in cui ognuno di noi si sarà, con umiltà e coraggio, con energia, dinamicità ed entusiasmo, impegnato nella vita quotidiana in questa direzione.
Ai fini del re-incontro tra ebrei e cristiani e del dialogo ebraico-cristiano, valga per tutti allora, con piena coscienza e con grande dedizione, il monito alla responsabilità personale contenuto nel Trattato di Avoth (II,20) a nome di Rabbì Tarfòn: “Lo ‘alèkha ha-melakhah ligmòr, ve-lo attà ben chorìn leibbatèl mimmenna!”, ossia “Non compete a te completare l’opera, ma tu non sei libero di esentartene”.