Pubblichiamo l’articolo di rav Giuseppe Laras apparso oggi 28 luglio sul Foglio, in cui riflette sulla tragica esecuzione del prete francese Jacques Hamel e delle conseguenze che esso ha nella lotta contro il terrorismo.
Folle o non folle, lupo solitario o branco, con l’uccisione di padre Hamel in chiesa, l’ultima diga è stata rasa al suolo. Uccidere i cristiani nei loro luoghi di culto durante le preghiere non è una novità: si pensi ai copti in Egitto, massacrati nel silenzio dell’occidente; ai cristiani filippini; ai cristiani in Pakistan; ai cristiani iracheni e al loro sterminio. Alcune immagini le abbiamo perfino viste in diretta, comprese le donne vendute schiave, rinchiuse in gabbia come polli. Le femministe in occidente tacquero e non manifestarono, le chiese europee furono troppo tiepide o comunque troppo silenti nei confronti dei loro fratelli di oriente..
Da questa prospettiva, non stupisce che drammaticamente in Europa, in una chiesa, un sacerdote, oggi martire, sia stato sgozzato come un animale. Dalla Normandia alle Filippine, dai fatti di questi mesi a quelli che perdurano ormai da decenni, il minimo comune denominatore è l’islam jihadista, di cui Daesh è solo un’espressione acuta, assieme al silenzio assordante – o alle parole non bastanti – di tanti altri musulmani per bene, contrari sì ma titubanti o impauriti. Non stupisce tristemente che, dopo le sinagoghe, si sia passati alle chiese: dopo “quelli del sabato”, “quelli della domenica”.
Eppure l’oscenità perpetrata martedì scorso in casa nostra, verso un nostro concittadino europeo, verso un nostro fratello anziano, è talmente un “inedito” da rappresentare simbolicamente l’ultimo baluardo abbattuto. Un fatto tremendo, espressione di una realtà polimorfa che si sente sufficientemente forte e che percepisce l’occidente e le sue espressioni simboliche (religiose, culturali e politiche) sufficientemente deboli e vecchie. Un simile atto, contro chiesa o sinagoga che sia, avrà certamente epigoni, silenzi e – temo! – ancora molte parole a vanvera.
Il Grande imam di al Azhar, Ahmad Al Tayyieb, caro alla Comunità di S. Egidio e ad alcuni politici italiani, condanna quanto è accaduto ieri, giustamente. Mi chiedo però dove fosse quando è accaduto altrettanto nei centri ebraici europei, da Tolosa a Parigi. E mi chiedo – e lo chiedo, in relazione a lui e alle sue dichiarazioni – con acribia a cristiani, ebrei e musulmani, come pure a politici e intellettuali – che pensi del libro “Banu Israil fi al Quran wa-al Sunna” del suo insigne predecessore alla medesima cattedra, l’imam Muhammad Sayyid Tantawi (morto recentemente nel 2010), ove questi così scriveva a chiare lettere: “Il Corano descrive gli ebrei con le loro proprie caratteristiche degenerate, quali uccidere i profeti di Allah, corrompere le Sue parole inserendole in luoghi sbagliati, consumare frivolmente il benessere degli altri popoli, rifiutare di prendere le distanze dal male che essi compiono e altre oscene caratteristiche originate dalla loro profondamente radicata lascivia… soltanto una minoranza degli ebrei mantiene la parola data… Non tutti gli ebrei sono uguali. Quelli buoni diventano musulmani, i cattivi no”.
La chiesa cattolica, nelle sue massime istituzioni, nei suoi dirigenti e persino, talora, nei suoi teologi per secoli ha spesso saputo essere – e purtroppo è stata – una persecutrice eccezionale. Questo, almeno, è stato per lo più il rapporto tra cristiani ed ebrei sino a tempi recenti. Leggendo i giornali di questi giorni e molte esternazioni di vescovi e cardinali, il fatto di essere divenuta vecchia e tremebonda, almeno in occidente, non rappresenta purtroppo in sé un progresso morale. Specie se risulta difficile persino chiamare il male per nome e dire che si tratta di islam jihadista e che l’islam jihadista, che non esaurisce l’islam e il mondo variegato dei musulmani, ma che comunque ne è disgraziatamente parte attiva, nutrita, ben radicata e ricca, è un’ipoteca epocale per il sussistere, almeno in Europa, della nostra civiltà.
Al riguardo, l’ultimo discorso meritorio, serio e puntuale è stato il magistrale e profetico discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, che andrebbe rivendicato, diffuso, riletto e profondamente meditato. Difendere la nostra civiltà, pur con tutti i suoi molti limiti e la sua storia difficile e contraddittoria, ha dei costi. Costi in vite umane, che abbiamo già iniziato a pagare. E costi in arte, letteratura, poesia, architettura, filosofia, teologia, musica, libera ricerca scientifica e, infine, scienza politica. Tutto questo ha richiesto infinito tempo e infinita fatica. Pensare che tutto ciò, che è preziosissimo, non meriti la fatica e le lacrime di essere difeso, costi quel che costi, anche la vita, è o perversione e corruzione oppure già la stessa resa. E il fattore “tempo” è anch’esso non a nostro favore. Circa i cristiani di oriente e gli ebrei – o almeno parte di loro -, non posso che rallegrarmi interiormente, a fronte di si inaudito sfacelo in occidente, che vi siano oggi almeno gli stati di Armenia e di Israele, ben difesi e determinati a resistere a ogni costo.
Io ringrazio Dio che vi siano questi due stati che, da quando esistono, hanno insegnato ai nostri rispettivi nemici, antichi e presenti, in oriente e in occidente, che, per la prima volta nella storia, il nostro sangue ha finalmente un prezzo. E un prezzo elevato. Mentre prima, per secoli, fu possibile che venisse versato a ettolitri senza che nessuno fiatasse, ne chiedesse conto e ne esigesse non vendetta ma giustizia. Il Libro dei Salmi, il libro per ebrei e cristiani universalmente conosciuto e citato, da entrambi quotidianamente impiegato per la preghiera, è un inno altissimo alla religiosità, ma è anche un fermo monito contro la violenza – o, meglio, contro i malvagi -, che attentano al prossimo, che perseguitano, uccidono e violentano il mondo. E lì se ne invoca la dispersione e la neutralizzazione.
Oggi gli europei e, nello specifico, i cristiani europei, si trovano a dover operare, volenti o nolenti, una vera rivoluzione della sensibilità e dell’intelletto, dello studio e dell’informazione, scegliendo se vorranno – se non per loro stessi, almeno per i loro figli e nipoti! – affrontare un lungo ed estremamente rigido inverno, dagli esiti incerti, oppure sollazzarsi con le ultime giornate estive, ancorché già perturbate, di sole e di chiacchiere. Giornate che, allora, non torneranno.