di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Nel dibattito pubblico, spesso sostenuto da toni ridondanti, roboanti se non esagitati, ciò che il più delle volte viene a mancare, tra le tante cose, è la fondamentale distinzione tra etica dei convincimenti (o dei princìpi) ed etica della responsabilità.
Cerchiamo di capirci: se si parla di etica ci si riferisce a un sistema di valori tra di loro interconnessi; ovvero, di un circuito di idee tra di loro incardinate, destinate a influenzare gli individui nella loro condotta quotidiana.
L’etica dei convincimenti è quella che anima chi ritiene di essere animato da principi assoluti, come tali insindacabili e indiscutibili. Si tratterebbe di valori, per l’appunto, che sopravanzano gli individui e i cui risultati non vanno misurati sul destino dei singoli bensì su un’immagine assoluta di bene che deve affermarsi a prescindere da considerazioni che non siano in totale coincidenza con i suoi contenuti. Così è nel caso, per fare un esempio, di appartenenti a quei movimenti rivoluzionari o religiosi (le due cose spesso si sommano) per i quali ciò che conta è l’«idea» in sé e non gli effetti concreti che può produrre sulle persone.
L’etica delle responsabilità, invece, prende in considerazione non solo il rapporto tra mezzi e fini ma ciò che concretamente ne deriva per la collettività. In parole povere ma, forse, un po’ più chiare: i princìpi, intesi come presupposti, debbono accordarsi con la realtà della vita delle società; non si può piegare queste ultime a una mera visione di parte, facendo a meno del riscontro concreto degli effetti di certe scelte.
Questa distinzione, introdotta già più di un secolo fa da un importante sociologo e politologo tedesco, Max Weber, considera il primo sistema etico come sostanzialmente apolitico, ossia privo di reale interesse per le ricadute concrete, avendo come unico obiettivo l’affermare il principio stesso. Si tratterebbe di una sorta di “morale assoluta”, che passa come un rullo compressore sul destino dei molti, dando quindi sostanza a quel complesso di pensieri che chiamiamo con il nome di “ideologia”. Soprattutto laddove essa sia intesa come la traiettoria logica di un’idea, fine a se medesima, e non il confronto con la concretezza dei rapporti umani.
L’etica delle responsabilità, invece, appartiene al campo della politica. Non si tratta, beninteso, di un galateo ma della convinzione che non si può mai eccedere se non a rischio, in prospettiva, anche dei propri stessi interessi. In altre parole, bisogna preservare le condizioni di fondo del pluralismo, senza il quale – invece – non solo libertà e giustizia avvizziscono, per poi decadere, ma a essere pregiudicata può divenire la propria stessa esistenza.
Per tornare al punto di partenza, e riannodare i fili del discorso, l’età che stiamo vivendo, costellata di una miriade di esternazioni a vuoto perduto, sembra essere contrassegnata non solo da un perenne stato confusionale, dove ognuno dice quel che gli pare senza preoccuparsi minimamente delle ricadute delle sue affermazioni, ma anche da una cacofonia che è inversamente proporzionale all’impatto delle grida e degli strepitii.
Più si alzano le tonalità, minori sono gli effetti concreti.
L’uomo la cui indignazione è in servizio permanente attivo, l’individuo che sente il costante bisogno di urlare, la persona che ossessivamente deve mettere parola su tutto, simulano una critica allo stato presente delle cose quando – invece – stanno raccontando soprattutto della loro impotenza. Ovvero, dell’incapacità di tradurre le astiose polemiche in atti politicamente significativi, altrimenti tali perché in grado di incidere nelle esistenze dei molti.
La nostra società è attraversata da questi moti di spirito, dove i convincimenti più pervicaci si impongono sui riscontri di fatto e, ancora di più, sull’impegno di assumersi la responsabilità degli effetti di ciò che si va affermando e sostenendo. Si tratta di un triste ma inevitabile riscontro.
Nella lunga stagione che stiamo vivendo, quella dell’ideologia che decanta la “fine delle ideologie”, l’unica comunicazione pubblica che sembra “funzionare” è quella che ripete ossessivamente i convincimenti di chi parla poiché non ha nulla di sensato da dire.
Il grande vuoto del nostro tempo, in fondo, sa rivelarsi accogliente per piccoli uomini che non pensano poiché non riescono neanche a pensare a se stessi.