di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Difendere l’unicità della Shoah per impedire che essa venga ridotta al nulla e perda la sua autenticità.
Si è già parlato, su queste pagine, di Anne Frank e del suo uso improprio, quasi fosse una sorta di icona pop o una specie di madonnina laica. Va aggiunto che già dalla fine degli anni Settanta – in un costante crescendo di attenzioni e con una partecipazione sempre più diffusa, il tutto infine rafforzato dall’istituzionalizzazione del Giorno della Memoria – la storia dello sterminio degli ebrei d’Europa per mano nazista e fascista è divenuto argomento di comune interesse. Non solo la platea degli interlocutori è andata aumentando, ma si sono diversificate le aspettative che ruotano attorno alla discussione sulle grandi questioni culturali, etiche e politiche in qualche modo richiamate e rilanciate dal ricordo delle persecuzioni sistematiche, delle deportazioni in massa e del genocidio razzista.
Da esclusivi aspetti del tempo trascorso, tragici prodotti di un regime dittatoriale e criminale, le vicende della Shoah e, più in generale, del sistema di oppressione nazifascista, a partire dai campi di concentramento e di sterminio, hanno quindi investito i discorsi di senso comune. Lo sterminio è divenuto il male assoluto, radicale, una sorta di indice su cui parametrare il resto delle vicende storiche. Tutto bene, quindi? Non è propriamente così. Poiché proprio per l’assoluta specificità ed unicità di quella catastrofe, c’è chi oggi è tentato di mischiare le carte. Non si tratta di un paradosso, a ben pensarci ma, piuttosto, di una gara tra quanti cercano di autoassegnarsi la palma di “coloro che più hanno sofferto”.
Auschwitz e l’universo concentrazionario sono infatti assurti a paradigma di una condizione universale, quello che rinvia alla vittima priva di difesa. La loro universalizzazione, all’interno dei linguaggi e delle immagini del nostro presente, se da un lato ha rivelato inedite potenzialità, offrendosi come strumento fondamentale di lavoro per l’indagine sul Novecento, dall’altro ha concentrato su di sé aspettative di significato che rischiano di piegare la storia alla sua manipolazione nel presente. Non c’è solo il problema del falso deliberato o dell’evidente mistificazione. Spesso la questione è più sottile, poiché rinvia al problema del buon uso della comunicazione: la grande quantità di richiami, peraltro, non è per nulla un indice di qualità.
In questo delicato processo di rielaborazione e identificazione, che ha coinvolto perlopiù quanti non sono stati vittime di quella tragedia, il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa è stato infatti fondamentale nello stabilire un immaginario collettivo. Non da ultimo, infine, il discorso pubblico sulle forme della memoria della Shoah si è impropriamente intersecato con la questione delle «identità», soprattutto laddove esso rimanda a conflitti irrisolti, a partire da quello tra israeliani e palestinesi. Con risultati a tratti demenziali. L’effetto inflattivo che deriva dalla numerosità dei rimandi, tanto più quando impropri o inopportuni, se da un lato concorre a sacralizzarne e a monumentalizzarne l’immagine, tuttavia ne svuota progressivamente di rilievo la sostanza. Se Auschwitz è ovunque, ed è il tutto (cosa diversa da essere un tutto), il rischio è che sia anche in nessun luogo e quindi si riduca al nulla, in una sorta di intercambiabilità continua, dove la specificità di fatti, agenti e concatenazioni storiche si perde in una sorta di riproducibilità infinita e pertanto indefinita. Non di meno, la banalizzazione dei richiami, ottenuta per il fatto stesso del loro incauto ripetersi nel corso del tempo, decontestualizzandoli e destoricizzandoli, nonché istituendo comparazioni e sovrapposizioni improprie, svilisce irreparabilmente l’autenticità dell’evento. Non quella storica ma civile ed etica. Il problema non consiste nel tutelarne un’inesistente incomparabilità e, con essa, un’unicità erroneamente intesa da certuni come primazia etica nella sofferenza, ma di capire quale sia il vero valore comune di quella che deve rimanere una fondamentale fenditura nella coscienza contemporanea per la globalità degli interlocutori. Senza però farne un uso dissennato e, in prospettiva, destinato a vanificare tutto il complesso lavoro fatto in questi lunghissimi anni.