di Claudio Vercelli
Varrebbe la pena non prenderli sul serio, ovvero non dargli un qualche residuo credito. Poiché la partecipazione di pubblico che riescono a raccogliere è, in genere, talmente modesta da rendere sostanzialmente irrilevanti le loro iniziative. Il rischio, in altre parole, è che parlando di loro gli si faccia, ancorché involontariamente, gratuita pubblicità. Ci riferiamo alle attività promosse da gruppi, collettivi, associazioni studentesche antisioniste, presenti soprattutto nelle università del nostro Paese.
Fermo restando il diritto di opinione e di parola, anche nei luoghi pubblici. Parola che si fa però “malata”, come spesso abbiamo scritto anche su queste pagine, quando diventa indice di un ossessivo pregiudizio. Detto questo, rimangono gli echi delle strologate altrui. E su queste, malgrado tutto, non si può transigere.
Mentre si è parlato sulla grande stampa, più o meno diffusamente, del centenario della Dichiarazione Balfour, all’occasione non potevano mancare anche quanti, da posizioni manifestamente antisioniste, hanno colto la palla al volo per fare polemica. Che ciò avvenisse era nell’ordine delle cose, prevedibile ancorché sgradevole. Come sia poi concretamente avvenuto è invece da raccontare.
Queste iniziative, infatti, mascherate sotto la forma di “convegni”, “seminari” o altro, sono solo occasioni, per piccoli e infervorati leader, di mettersi in mostra in assemblee tristi ed esangui. Ripetendo triti cliché. Semmai, ciò che a noi interessa è allora capire come l’argomentazione pregiudiziosa sia rimestata da costoro, così come si fa con le polveri nel mortaio. In altre parole, qual è la miscela, ossia i meccanismi ideologici, sui quali si orienta l’antisionismo nel momento in cui si vuole auto-nobilitare come pensiero “critico”.
In un volantino di una di queste iniziative l’attacco alla Dichiarazione Balfour – intesa come manifestazione del «colonialismo occidentale» – segue un interessante percorso di torsione storica e culturale. Infatti, il verboso manifestino, ovviamente incollato abusivamente sui muri del centro città, cerca in poche righe di chiarire ai lettori quale sia il filo del ragionamento. La cornice è la denuncia (anch’essa maniacale) del perdurante «colonialismo» (sionista) come di un mostro che continuerebbe a minacciare il mondo intero.
Chissà perché, viene subito da pensare a Godzilla, la caricatura giapponese di un «Kaijû», un animale preistorico, rigenerato dall’esplosione delle bombe atomiche, che distrugge tutto quello che incontra sul suo fatale cammino. Chi ama i B-Movie, conosce bene il personaggio, che negli anni Cinquanta e Sessanta accompagnò una trentina di pellicole, per la delizia di grandi e “piccini”. Gli estensori del testo non si fermano tuttavia a questa invettiva. Poiché compiendo quello che, dal loro punto di vista, è un salto di qualità nell’analisi affermano che il sionismo fu creato per fermare la politicizzazione delle «masse ebraiche». Evidentemente, sfugge a questi signori il fatto che il sionismo sia, storicamente, perlopiù un fenomeno politico, derivante proprio dai processi di marcata politicizzazione delle società ebraiche, soprattutto dell’Europa dell’Est a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Affermare il contrario è un po’ come dire che la pioggia non bagna chi incautamente è uscito di casa senza ombrello, beccandosi il temporale. Ma non finisce mica qui. L’articolazione “critica”, sia pure nel breve spazio di un volantino, va oltre ed alza ancora di più il tiro. Il sionismo, sostiene, era uno strumento della borghesia (nel qual caso, di quella ebraica o di quella non ebraica?) per distruggere l’«organizzazione del proletariato nel Bund». Cosa sia stata l’Unione dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania, nata nel 1897, è tema di grandissimo rilievo, non solo storico. In Italia ancora con troppa timidezza se ne scrive. Posta questa premessa, ben sapendo quanto tra Bund e movimento sionista vi fosse una forte concorrenzialità politica (sì, proprio così: politica!) sulle opzioni da praticare per emancipare gli ebrei dallo stato di soggezione ai poteri costituiti, il dire che il secondo si genera come strumento per neutralizzare il primo, ha il sapore di una contraddizione che rasenta il nonsense. Poiché non solo passa come un rullo compressore sui fatti storici, ma richiama una visione della dialettica politica, del conflitto tra idee e opzioni, pari allo zero assoluto. Sostituendo ad esso, ancora una volta, il meccanismo del complotto. I «sionisti», per l’appunto, come delle creature di laboratorio, generate per causare il male, senza nessuna anima che non sia quella diabolica.
Quanto ci possa essere di antisemitico in queste “letture”, falsamente storicizzanti, quando invece sono informate ad una visione pericolosamente stereotipata del passato, ce lo può dire solo il presente. E la risposta è risaputa.
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