di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Israele è in fermento. Tra quanti leggono abitualmente queste righe, la notizia di per sé non costituisce di certo una novità. Semmai è ragione di preoccupazione, di affettazione così come, più raramente, di speranza. La storia, dei popoli, al pari delle nazioni e degli Stati, non è mai – peraltro – il prodotto di un percorso lineare. Si è ciò che si è divenuti anche in ragione dei conflitti, delle divisioni, al pari delle ricuciture che, nel tempo, si sono adoperate per trasformare una plebe tumultuosa, da orda tanto primordiale quanto informe, in qualcosa d’altro. Ossia, in comunità e poi popolo. Infine, in ciò che conosciamo con il nome di «nazione», una sorta di miracolo secolare che attraversa due secoli, l’Ottocento e il Novecento.
Detto e precisato tutto ciò, venendo ai giorni nostri, per il resto del nostro Paese, ciò che avviene in Israele è invece un’irrilevante piega di fatti occasionali, tale quindi da non meritare alcuna informazione né, tanto meno, opinione. Beninteso, che non sia, come tale, preconcetta. In Italia non solo si legge poco ma – soprattutto – si comprende ancora meno. Anche per una tale ragione si sentenzia tanto: giudicare banalmente e superficialmente quel che non si conosce è ben più facile del valutare il groviglio di ciò che, altrimenti, si cerca invece di capire.
Comprendere implica infatti il tenere insieme molti fili del discorso (così come della vita), a volte tra di loro contraddittori: erigersi a giudici, al contrario, è un semplice esercizio, dove si tagliano persone, storie, relazioni e cose con l’accetta dell’ideologia. Sputare sentenze si confà a questo genere di esercizio di banalizzazione della storia collettiva. Non solo di quella altrui ma, in un gioco di rifrazioni, anche della propria. La non casuale indifferenza, che regna sovrana, su quanto sta accompagnando Israele, si inserisce – quindi – in tali dinamiche collettive.
Al netto della diffusa ignoranza, per venire quindi a noi, quanto sta avvenendo in Israele è riconducibile alla contrapposizione netta, senza mediazioni di sorta, non tanto tra vincitori e vinti in una singola elezione, bensì tra distinte visioni dell’identità a venire del Paese. Quindi, riguardo non solo al suo presente, ma anche, e soprattutto, al suo futuro. Per chi ha seguito, nel corso del tempo, l’evoluzione della società nazionale israeliana, non risulta un fatto troppo sorprendente. Anche se l’intensità e l’esacerbazione alle quali stiamo assistendo hanno spiazzato molti.
Da una parte c’è una collettività secolarizzata che, come tale, rivendica la continuità dello stato di diritto, rimandando alla stessa esperienza storica dello Stato d’Israele, e a ciò stesso che lo ha preceduto prima del 1948. Dall’altra, c’è un Israele che non si è mai sentito per davvero pienamente rappresentato dalle istituzioni, dalle amministrazioni e dalle organizzazioni, pubbliche e private, che nel tempo ne hanno edificato e irrobustito le fondamenta nei fatti concreti. La qual cosa è avvenuta per tante ragioni. Nella storia di una collettività, se esiste un filo rosso che lega a sé cose, persone ed eventi diversi (in questo caso il nesso tra ebraismo e sionismo), è anche vero che una società non è la somma algebrica di tanti numeri – tra di loro eternamente sostituibili – bensì un complesso organismo, che è tale poiché composto da persone molto differenti tra di loro. Come tali, destinate a mutare nel tempo. E che tuttavia cercano un comune punto di convergenza.
La democrazia, a conti fatti, è questa cosa: stare insieme nelle rispettive diversità. Anche per questo motivo, coloro che si confrontano da piazze e strade contrapposte, non sono necessariamente due identità collettive in totale contrapposizione, ovvero destinate a farsi la guerra su tutto. Tuttavia, sono come due anime che da molto tempo si scontrano, nei medesimi luoghi. E che adesso sono emerse. Poiché non c’è popolo che sia completamente uniforme, se non nei deliri dei regimi totalitari. Lo stallo politico che da tempo attraversava il Paese, quanto meno a partire dagli ultimi cinque anni, è stato affrontato – e poi per così dire “risolto” – in questa secca conflittualità. Da una parte quanti (non solo i politici eletti o nell’esecutivo ma anche i loro elettori e sostenitori) intendono mutare, per più aspetti radicalmente, gli equilibri storici tra poteri in Israele. Quelli che hanno votato per la destra al momento al governo, sono accomunati dal non sentirsi rappresentati dall’attuale sistema di garanzie legali. Dall’altra parte, invece, si collocano gli strenui sostenitori della imprescindibilità di una democrazia, qual è Israele, legata ai canoni più classici delle divisione tra poteri.
Non c’è molto spazio d’incontro tra queste due visioni antitetiche del futuro del Paese. Non si tratta del mero bipolarismo tra destra e sinistra, posto che la seconda è oramai irrilevante. Semmai si è in presenza dello scontro tra una visione della politica messianica e una, invece, razionale e mediatoria. La posta in gioco, per capirci, non è il destino di una parte politica bensì di un complesso sistema di equilibri istituzionali.
Veniamo quindi al dunque di queste brevi note: se su Israele si è sempre e solo riflettuto in base a luoghi comuni, a cliché, a immagini stereotipate, non può allora sorprendere che le informazioni su quanto sta tumultuosamente avvenendo in questi mesi all’interno del Paese, non solo siano scarse ma filtrate da una sorta di incapacità, prima dei mezzi di comunicazione di massa e poi dello stesso pubblico di spettatori, di coglierne sia la specificità come anche, per così dire, l’anticipazione. Poiché quanto avviene in Israele è una sorta di fenomeno che precorre ciò che potrebbe avvenire nel resto delle democrazie occidentali. Quindi, per capire e capirci, dobbiamo forse ripartire da questa consapevolezza. Che non è mai polemica bensì critica: le democrazie sono in grave crisi, sostituite da autocrazie di nuovo conio, adatte al XXI secolo. Quanto avviene a Tel Aviv, a Gerusalemme, ad Haifa, nel resto del Paese, ci interpella. Non solo come «ebrei», ma in quanto cittadini del nostro tempo.