di Luciano Bassani
Mio padre Bruno Bassani si laureò brillantemente in Medicina e Chirurgia alla Normale Pisa nel 1938. Quello stesso anno l’Italia varò le leggi razziali e mio padre a Ferrara tentò inutilmente di esercitare la professione medica . Nell’aprile del 1939 inoltrò una richiesta alla Corte d’appello per una borsa di studio dell’Università di Pisa presso l’Istituto della Nutrizione di Buenos Aires a cui seguì, nel maggio dello stesso anno, una risposta dell’ufficio nazionale per le relazioni culturali con l’estero: la domanda alle autorità argentine non fu ritenuta “opportuna, stante la vostra appartenenza alla razza ebraica”. Coi mesi la situazione divenne sempre più difficile e pericolosa e Bruno Bassani conscio che la sua vita era oramai legata a un filo e che l’espatrio era quasi impossibile, con l’anziano nonno Gilmo e la madre Lavinia Limentani, lasciò Ferrara per sfuggire ai nazisti che dopo l’armistizio con gli alleati dell’8 settembre avevano invaso l’Italia, rendendo più crudele e definitiva la persecuzione antiebraica. Scappò verso Est e arrivò a Fiera di Primiero, in Trentino, dove non vivevano ebrei e quel cognome, Bassani, non veniva riconosciuto come ebraico. Grazie a questo, mio padre poté lavorare come medico: trovò lavoro nel sanatorio, impiegato dalle suore locali grazie alle sue competenze. Poi , denunciato dai fascisti del posto, si spostò a Stresa, dove osò entrare nel comando delle SS locali: con coraggio e molta incoscienza, battendo il pugno sul tavolo, si spinse a esigere una tessera annonaria e il diritto a lavorare ed esercitare la propria professione di medico. Audacia che sarebbe diventata mito familiare, orgoglioso aneddoto di figli e parenti.
La mia vita medica sin dall’inizio si è formata all’ombra di quell’uomo coraggioso che, scampato alla furia omicida nazista, si costruì una nuova vita dalle macerie della guerra introducendo in un mondo medico, da secoli statico e poco sensibile alle novità, prima l’aerosolterapia e la ginnastica svedese, poi le manipolazioni vertebrali infine l’agopuntura e le infiltrazioni. I contatti con il mondo della medicina francese e inglese furono continui, fino a istaurare rapporti di collaborazione e di amicizia davvero internazionali.
Tutta la vita di mio padre, seppure adombrata dalla tragedia delle persecuzioni e dal ricordo delle tante persone bruciate nei forni crematori, fu improntata all’insegna dell’ottimismo e della curiosità, sia nel lavoro che nella vita privata. Da lui ho appreso la visione di una medicina dinamica improntata alla curiosità e proiettata verso lo studio e la continua ricerca di nuove metodiche di terapia.
Oggi che viviamo la drammaticità della pandemia che ha portato con sé dolore e morte, mentre vedo con ammirazione come la scienza ha scoperto e messo in atto una grande macchina vaccinale che ha salvato milioni di persone e che potrà portarci presto fuori da questa immane tragedia, non posso non notare con stupore e perplessità come tanti rimedi contro gli effetti dell’infezione, trovati sul campo per ”disperazione” e rivelatisi utili, vengano sistematicamente smontati in nome di quella Scienza con la S maiuscola che con una supponenza talora ingiustificata non riconosce tutto quello che non rientra nel suo dominio.
Allo stato attuale delle cose , dopo due anni di pandemia , è necessario porsi qualche domanda sul perché la gestione del virus ad oggi non prenda in considerazione anche delle cure mediche che, se adottate in tempi rapidi e sulla base dell’esperienza clinica di molti seri professionisti, hanno dato ottimi risultati . Ripenso a mio padre che dovette combattere per tutta la vita per non farsi schiacciare da chi non accettava le sue idee spesso innovative e comunque efficaci e penso con rammarico che ci sia ancora molta strada da percorrere .
Spesso si dice che tutte le novità passano per tre stadi. La prima è la ridicolarizzazione. La seconda il contrasto violento. La terza l’accettazione dell’evidenza (Arthur Schopenhauer 1788-1860).