di Vittorio Robiati Bendaud
L’11 agosto il papa ha tenuto una catechesi sulla Lettera ai Galati, un testo che scotta nei rapporti tra ebrei e cristiani. La querelle che ne è nata ha fatto il giro del mondo.
Premetto due cose.
1. La decisione di intervenire è presa con sofferenza, perché, trattandosi di argomenti estremamente complessi e lontani dal grande pubblico, il rischio è che si dica “ma questi che vogliono ancora?”, con ulteriori fraintendimenti ed esasperazioni.
2. A differenza di molti, papa incluso, il dialogo ebraico-cristiano per me non è stato (e non è) soltanto attività accademica o ‘diplomazia religiosa’. Esso attraversa la mia storia personale e quella della mia famiglia, perché “mista” tra ebrei e cristiani; coincide con la conoscenza di persone che amo e stimo, da cui ho imparato moltissimo, dai miei amati e compianti Giuseppe Laras e Carlo Maria Martini alla mia adorata amica Antonia Arslan, che hanno orientato la mia biografia personale e intellettuale, con tutta una serie di scoperte e scelte personali delicate circa identità e appartenenza, che hanno significato studio e dovere di chiarezza. Devo tanto al dialogo ebraico-cristiano, anche se ne conosco, dall’interno, i limiti, le ipoteche, le contraddizioni e le tentazioni. Le presenti critiche mirano, pertanto, a rilanciarlo.
Per semplificare brutalmente: la Lettera ai Galati innesta una tensione tra l’ebraismo e il cristianesimo da esso nascente. Tale tensione ruota attorno alla Torah e all’osservanza dei precetti che essa prescrive (mitzvòth) e a Gesù rispetto alla Torah, secondo l’opinione, che poi divenne determinante e maggioritaria, di Paolo di Tarso, un ex-fariseo: l’abolizione dei precetti (ritenuti inefficaci) sarebbe espressione e derivazione di un’ ‘alleanza nuova’ (espressione che nella Bibbia ricorre già più volte, ma che qui cambia ora radicalmente significato, la “Nuova Alleanza”) a cui la ‘vecchia’ deve cedere il passo (per dirla in poesia con Tommaso d’Aquino: et antiquum documentum novo cedat ritui).
Prima di essere una polemica, anche molto accesa tra ebrei e ‘cristiani’, dapprincipio fu un’incandescente polemica dentro l’ebraismo stesso, che poi raggiunse ambienti esterni (ossia i pagani che si convertivano al cristianesimo nascente, anche se ve ne furono molti che si convertivano all’ebraismo, con una crescente concorrenza tra le due comunità e con passaggi di convertiti dall’una all’altra, fatto che perdurò per secoli). Tale polemica poi deflagrò rovinosamente con il primo grande testo del pensiero teologico cristiano, il Dialogo con Trifone del vescovo Giustino, un romano, ex-pagano divenuto cristiano, nato nell’odierna Nablus, che assistette alla caduta della sovranità nazionale ebraica e alle purghe romane. Con Giustino il cristianesimo, all’epoca assai eterogeneo, iniziò a saldarsi con il potere e il pensiero della Roma imperiale e pagana.
Il testo di Giustino (e non solo), che rilancia ed esaspera le polarità innescate da Paolo, è alla base del successivo bimillenario antiebraismo, con una serie di accuse terribili, destinate nei secoli a mietere infinite vite umane e a sfigurare l’ebraismo ‘vittima’ (ma pure il cristianesimo ‘carnefice’), degradandolo e scientemente deformandone la comprensione agli occhi degli ignari fedeli cristiani. Molti argomenti di Giustino (e non solo) sono poi penetrati nel Corano, venendo così inclusi nel testo sacro dell’Islàm e posti alla base di un diverso antiebraismo, quello islamico. Da allora il cristianesimo, anche per la strategia retorica con cui sono composti questi antichi testi, si è per lo più strutturato (e così l’intera tradizione del pensiero occidentale), in opposizione all’ebraismo.
In breve, il cristianesimo iniziò a sostenere, tra incomprensioni strutturali e mistificazioni, che la Torah fosse spietata e angusta; che non vi fosse amore, né liberta, né misericordia, né perdono in essa; che ‘il comandamento dell’amore’ fosse la novità cristiana, tacendo -o mettendo in sordina- che Gesù, da buon ebreo, in proposito citava proprio la Torah e la tradizione di Israele; che fosse stato il cristianesimo a predicare per primo l’eguaglianza tra esseri umani, creati nell’immagine di Dio, e non la Torah (Genesi I), offrendo dell’ebraismo una perversa caricatura settaria; che la comprensione ebraica delle Scritture di Israele fosse erronea, legalistica e ritualistica, con la pretesa di definirne lui la corretta interpretazione, nonché il giusto (e ‘vero’) ebraismo.
L’ebraismo venne così degradato a ciò che il cristianesimo non era. In soldoni, come a molti lettori sarà purtroppo capitato ancora sentire nelle omelie di taluni loro parroci (cosa di cui tanti amici cristiani ‘adulti’, esasperati, tutt’oggi con me lamentano sovente), alla vendetta si oppone il perdono; alla Legge (traduzione impropria e limitante della parola Torah, il cui significato etimologico è ‘Insegnamento’) la Grazia; alla giustizia la misericordia; all’Antica Alleanza la Nuova. Tale strumentale (e falsa) opposizione, disgraziatamente per tutti, non è stata accessoria, come spesso si tende a minimizzare, ma fondativa. Nei secoli, come ha scritto il vescovo A. Spreafico, “l’insegnamento teologico ed esegetico ha contribuito allo sviluppo dell’antisemitismo nel secolo scorso, con le conseguenze ben note che portarono alla Shoah”.
La dichiarazione Nostra Aeteate e la rivoluzione dei rapporti fra ebrei e cristiani
Dopo la Seconda guerra mondiale, la Chiesa Cattolica ha dovuto fare i conti con la sua storia, tra riconoscimenti e omissioni, con il compromissorio documento Nostra Aetate, dove non c’è alcuna fonte patristica (cioè dei Padri della Chiesa, orientali e occidentali). Tale documento ha avviato una lenta rivoluzione nei rapporti tra ebrei e cristiani occidentali (sottolineo quest’ultimo aggettivo, perché le liturgie -e dunque le teologie- di tutte le Chiese Cattoliche di rito orientale non sono state sottoposte a rivisitazione per motivi teologici e politici). Ciò fu possibile perché, seppur in sordina, teologicamente si decise di ‘rompere’ con l’interpretazione tradizionale fondatrice del cristianesimo, i Padri, che venivano per la prima volta contraddetti od omessi. Solo Giovanni Paolo II pubblicamente ‘sconfessò’ sull’antiebraismo Ambrogio, padre spirituale di Agostino, pensatore determinante per l’evoluzione del cristianesimo (e, purtroppo, dell’antiebraismo). Tutto questo aprì una spaccatura ‘non ufficiale’ nell’impianto della teologia cattolica: alcuni ambienti conservatori -tra cui, non di rado, teologi antiebraici- si sentono a disagio con questa rottura, perché significa insinuare uno stravolgimento, ritenuto indebito, nella Tradizione della Chiesa, aprendo un insidioso ‘precedente’, poi applicabile ad altre questioni a detrimento dell’ortodossia; per taluni progressisti -che non coincidono per forza con ‘amici degli ebrei’- fu un precedente per via via attuare una riforma mai dichiarata del cattolicesimo su tanti altri ambiti.
Papa Francesco ha commentato la Lettera ai Galati e, nel momento in cui si maneggia l’inizio della separazione, per continuità e distanza, tra Chiesa e Sinagoga, si entra in questioni delicatissime, che devono essere assunte, comprese e spiegate, specialmente alla luce della nascita del dialogo ebraico-cristiano, che veicola anche un ripensamento del cristianesimo rispetto a se stesso. Papa Francesco ha infatti scritto in altra sede che: “è di vitale importanza, per i cristiani, promuovere la conoscenza della tradizione ebraica per riuscire a comprendere più autenticamente se stessi”.
Se, nel suo commento a Galati, il papa avesse citato, per inquadrare la comprensione cristiana del testo, la problematicità delle polarità poc’anzi ricordate e del loro successivo riuso, talora scellerato, invitando a cautele, tutta questa spiacevolissima e dannosa vicenda non ci sarebbe stata. Ma, vi chiederete, il papa (come i molti parroci, teologi e predicatori) è tenuto a farlo? Vari documenti ufficiali della Chiesa dicono di sì. Già negli Orientamenti Pastorali per l’applicazione di Nostra Aetate (1974) si legge: “nei commenti dei testi biblici, senza minimizzare gli elementi originali del Cristianesimo, si metterà in luce la continuità della nostra fede con quella dell’Alleanza antica, nella linea delle promesse. (…) Per quanto riguarda le letture liturgiche, si avrà cura di darne, nell’omelia, una giusta interpretazione, soprattutto per quanto concerne quei passaggi che sembrano porre il popolo ebraico in quanto tale in una situazione sfavorevole. Ci si sforzerà di istruire il popolo cristiano in modo che giunga a comprendere ogni testo nel senso autentico, nel suo significato per il credente di oggi. Le commissioni incaricate delle traduzioni liturgiche saranno particolarmente attente nel rendere le espressioni e i passaggi che possono essere interpretati in senso tendenzioso da parte di cristiani insufficientemente informati (…) L‘Antico Testamento e la tradizione ebraica su di esso fondata non debbono essere considerati in opposizione al Nuovo Testamento, come se essi costituissero una religione della sola giustizia, del timore e del legalismo senza appello all’amore di Dio e del prossimo”. Insomma, l’idea sottesa è che, sulla scorta della Storia e di una rinnovata e più profonda conoscenza dei testi sacri, si debba passare, rispetto all’ebraismo, per più autenticamente strutturare l’identità cristiana stessa, dal “ma avversativo” a una “e disgiuntiva” o, meglio ancora, “coordinante”, se mi si concede il parallelismo sintattico. Se papa Francesco avesse colto l’occasione delle difficoltà testuali per far conoscere al pubblico cristiano -e dunque ai moltissimi vescovi, preti e catechisti che lo ignorano- già solo questo vecchio documento del ’74, avrebbe offerto un prezioso e fondamentale insegnamento per l’edificazione di tutti, cristiani ed ebrei. Conoscendo la disponibilità al confronto di questo papa, non sarei però affatto stupito che lui stesso, in una prossima occasione, si faccia personalmente interprete di tutto ciò.
Quello che questa vicenda ha messo in luce, tuttavia, è che tale insegnamento fondamentale del Concilio, con i suoi orientamenti, assieme all’infinita messe di lavori e studi su queste tematiche prodotte da cristiani ed ebrei in dialogo, non è assolutamente passato nella formazione, nella cultura e nella coscienza comune del popolo cristiano e delle gerarchie ecclesiali, e, in qualche modo, persino papa Francesco ne è stato vittima. Parimenti significa che il dialogo ebraico-cristiano non è affatto arrivato alla gente. È un fallimento di cui si deve prendere atto, di estrema gravità, nonché fonte di grande preoccupazione. Credo che la sfida da lanciare tanto alle dirigenze cattoliche che a quelle ebraiche sia di ricuperare il tempo perso e di pensare a strategie efficaci, pervasive e verificabili per la formazione dei cristiani, dai catechisti ai seminaristi, sino ai vescovi. E credo che papa Francesco sia il primo che possa comprendere il problema e che potrà dare un aiuto. Questo, specialmente, in una fase storica incipiente dove vi è un trasversale e ognora montante rigurgito di antisemitismo.
Altra faccenda è, invece, l’articolo di padre A. Spadaro SJ, direttore di Civiltà Cattolica, apparso su il fatto quotidiano (27 agosto), in cui, pensando forse di difendere il papa, gli ha reso un cattivo servizio. Chi legga gli Orientamenti e poi il testo di Spadaro rimarrà assai colpito, perché ripropone sin dal titolo (La ‘religione del cuore’ è l’opposto della ‘dottrina dei farisei’) retoriche stantie, abusate, ampiamente sconfessate dagli ultimi cinquant’anni di studi ebraici e cristiani in proposito (condotti anche presso prestigiosi università gesuitiche), da lui ignorati.
E, in nome di un ammiccante ‘progressismo’, utilizza e rilancia gli argomenti più triti del conservatorismo cristiano: “Gesù distingue nettamente la ‘religione del cuore vicino’ dalla ‘dottrina dei precetti’”, o, ancora, combatte l’ordine “della formalità, della banalità che riduce la trascendenza a fenomeno esoterico o esteriore”. La struttura oppositiva, seppur in forma 2.0, è evidente. Si consideri poi che, proprio in quanto direttore di Civiltà Cattolica, un’opera di riparazione e di purificazione della memoria e degli insegnamenti dovrebbe stargli più che a cuore!
La cosa peggiore -ed è la vera nota dolens drammaticamente elusa da tutti- è che, per denunciare eventuali storture nella vita religiosa e morale dei cristiani (storture che, beninteso, possono vivere anche gli ebrei, e non solo) il bersaglio impiegato siano ancora e sempre degli ebrei (i farisei, ad esempio). E così si proietta, anche a proprio danno, il male fuori da sé, su un soggetto esterno archetipico dei difetti o degli errori che si vogliono denunziare, senza troppo turbare la tranquillità e il sentimento narcisistico della propria comunità, che, anzi, ne così viene rafforzato.
Se Spadaro, o chi per lui, desidera trovare dei bersagli polemici per denunziare le degenerazioni delle persone religiose -cristiane, in questo caso-, potrebbe tranquillamente (e forse con più profitto) invece rivolgersi alle biografie, raramente adamantine, di superiori, papi, vescovi e, non di rado, santi e teologi.