di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie]
Torniamo a parlare di antisemitismo. Non si può comprendere il destino delle parole, e con esse delle immagini dense e potenti che richiamano, se non le si collocano nella mutevolezza dei contenuti che nel tempo assumono. Più che adoperarsi in una maniacale attribuzione di significati, giocando sulla sola dicotomia tra destra e sinistra, occorre semmai tenere in considerazione anche altri aspetti, tra i quali, l’alternarsi delle stagioni culturali, sociali e quindi politiche. A tale riguardo va riconosciuto che stiamo vivendo, oramai da lungo tempo, un radicale cambio di passo. Comunque lo si interpreti e lo si intenda valutare. Un cambio di passo rispetto al quale non sono per nulla estranee le politiche della memoria, le rielaborazioni collettive del senso del passato, gli stessi temi legati all’antirazzismo e alla lotta all’antisemitismo. Che si incrociano con temi cruciali come quelli delle “identità” di gruppo, del rapporto tra maggioranza e minoranze, degli spazi democratici e dei modi di relazionarsi degli uni con gli altri.
Il primo punto da cui partire è il riscontro dell’erosione delle culture politiche che, a vario titolo, si rifanno al circuito liberaldemocratico e al suo sistema di pesi e contrappesi. Se il tema di fondo è quello della cittadinanza, ovvero dei percorsi di inclusione, partecipazione e di redistribuzione delle risorse, allora la netta inversione di tendenza è non solo evidente ma conclamata. La forza delle forze politiche post-costituzionali, sempre più spesso chiamate a governare, risiede nel dichiarare concluso il tempo inauguratosi con il compromesso del 1945, quello tra capitale e lavoro, allora sulle ceneri di un guerra catastrofica. Negando l’esistenza stessa di soggetti collettivi (le “parti sociali”) salta invece il particolarismo identitario come il vero collante, sia pure conflittuale, nelle relazioni sociali. Laddove la forza dei poteri si accompagna alla subalternità di tutti coloro che ne sono invece esclusi.
Cosa c’entra tutto ciò con la pedagogia del passato come con la lotta contro i razzismi e l’antisemitismo? Di mezzo c’è la questione del potere d’interdizione. Che non è mai un tema in sé neutro. Interdire implica definire cosa sia inaccettabile nel discorso pubblico. Con tutte le conseguenze che ne possono derivare. A partire dal fatto che chi può assumere una tale funzione si garantisce una potenza di auto-legittimazione enorme. Incanala le pubbliche opinioni. Non è allora un caso, infatti, se agenzie istituzionali, nazionali e internazionali, si siano incaricate di farla propria. Nel momento in cui la pedagogia del passato si accompagna all’angoscia per il futuro, i temi della memoria, delle persecuzioni razziali (ma non necessariamente di quelle coloniali), dello sterminio delle comunità ebraiche sono stati, almeno in parte, assunti da figure politiche che, sia pure tra molti transiti, costituiscono anche espressione dell’eredità di coloro che furono tra i persecutori. Alla pedagogia democratica, infatti, si sta sostituendo quella della paura. L’irrisolto rapporto con l’ebraismo, da sempre una sorta di entità metafisica per i più, si inscrive in questo transito. Non chiama in causa gli “ebrei” in carne ed ossa ma, ancora una volta, l’immaginario che ad essi è immediatamente ricollegato. Il quale si basa su un costante rimando alla loro presunta potenza. Sovraumana e quindi diabolica. La sovrapposizione con Israele, e le politiche dei suoi governi, va quindi quasi sempre in automatico. Nei fatti concreti, non è vero che gli ebrei siano divenuti soggetti di potere. Semmai sono i “nuovi” poteri, quelli post-democratici, che cercano di avvantaggiarsi, pro domo propria, di un tale deposito immaginifico.
Un certo filo-semitismo di facciata, allora, rischia di trasformarsi nell’altra faccia dell’antisemitismo. Due volti per una medesima medaglia, poiché l’oscillare tra identificazione acritica e avversione pregiudiziale è basato sul medesimo principio, quello dell’invidia per una presunta supremazia sociale, culturale, economica. Quindi egemonica. Della quale appropriarsi. Basata com’è sul presunto particolarismo etnocentrico di gruppo. Quest’ultimo, in franchezza, è una vera e propria boutade. Ma continua a funzionare, ricorrendo a tutto l’archivio antisemitico. In un tale contesto, il rimando alla Shoah perde quindi la sua natura di evento paradigmatico universale, tale poiché in grado di comunicare dei significati condivisibili anche tra persone e comunità umane molto diverse. Ed assume invece la scomoda funzione di involucro per ogni genere di azione politica, ponendo quest’ultima al riparo da critiche di merito. Non è allora un caso se, disgiungendo la storicità di quell’evento dalle concrete responsabilità del tempo che fu, venga quindi cristallizzato in una teca, da esporre ossessivamente in pubblico per eventualmente tacitare ogni voce che non si allinei agli indirizzi anche di quei governi e di alcune forze politiche che si esercitano contro il pluralismo democratico. Il tutto, francamente, non è un problema degli “ebrei”. È semmai un interrogativo per l’intera società presente e a venire. Non è un problema di usi bensì di deliberati abusi. In un gioco perverso di identificazione pavloviane. Segnatamente, anche lo stracotto antisionismo, con le sue molteplici contraddizioni e aporie, si inscrive in queste dinamiche. Ma pochi, se non nessuno, lo vorranno riconoscere.
Foto in alto: un rotolo di stoffa stampata con le stelle di David, da ritagliare per l’applicazione sugli abiti degli ebrei per ordine dei nazisti. (Museo ebraico di Amsterdam)